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Ven 11 Nov 2022 - 10:48

Modi di dire siciliani Zwnvmxa



La Sicilitudine è anche lingua parlata, come quella dei nostri avi, il cui carattere viene fuori dalle tante espressioni linguistiche che essi hanno costruito e maneggiato nella loro storia. Sono tanti gli aspetti: dal disprezzo della loquacità (Cu è surdu, orvu e taci campa cent’anni ’n paci; all’individualismo (Sulità santità); all’immobilismo (Lu picca m’abbasta e l’assai m’assuvecchia); al concetto dell’onore; alla religiosità ecc.
Ma l’aspetto che più forte di ogni altro salta agli occhi è la rassegnazione: è praticamente impossibile incontrare un detto o un proverbio o una poesia che inciti, non dico alla rivolta ma almeno all’insofferenza, alla rabbia o all’ira nei confronti del dominatore di turno.
L’ira invece esplode, eccome! per ben trenta strofe, in una gustosa poesia scritta, in seguito a un curioso furto, da tal Erasmo Parisi, di professione ’nzitaturi, cui hanno rubato il basto del proprio mulo: “Cu fu chi la me varda si pigghiau / Arsu ’nta ’na carcara l’addisiu / [ … ] / Scipparicci l’occhi, li anghi e li renti / E l’ugna di li peri tutti quanti / Tagghiaricci l’aricchi quantu un senti / ma puru dda cosa chiù brillanti / …”.
Dunque, nella scala dei valori di noi Siciliani, la cui violazione può portare l’uomo alla rivolta, alla vendetta (A cu ti leva lu pani levaci la vita) e anche alla morte, non sembra figurare nei primi posti la libertà. È vero, ci fu la rivolta dei Vespri, ma bisogna dire che quella mattina di agosto del 1282, la rabbia contro una delle dominazioni peggiori della storia siciliana si scatenò in seguito a un’insolenza rivolta all’onore di una donna.

Modi di dire siciliani 8LW5eni



A beđđu cori

Si usa per rispondere affermativamente e con entusiasmo a una richiesta.

A cantarèddu

Accovacciato. Dalla posizione che si assume quando si è seduti sul cantaru.

A capìzzu

Alla testa del letto.

A cavàđđu mairu, muschi

Il destino si accanisce sempre su chi è più debole.
Le mosche che infestano gli equini, comunemente chiamate mosche cavalline, sono tafani, insetti della famiglia delle tabanidae. Il morso di un tafano è molto doloroso perché, diversamente da altri insetti, esso non fora la pelle dell’ospite, ma la squarcia con l’apparato boccale munito di piccolissime lame che sono utilizzate come forbici.
Infestazioni massicce di questi insetti possono rallentare l’aumento di peso dell’animale colpito.

A cu ti leva lu pani lèvaci la vita

Chi ti toglie il pane merita la morte.
Era più di un detto popolare. Si trattava di un’impietosa norma etico-giuridica, condannata dalle leggi dello Stato ma condivisa a livello folkloristico. Essendo il pane similmente al sangue fonte di vita, chiunque lo levasse al prossimo meritava di essere ucciso.
Se il pane nella storia dell’uomo in generale occupa un posto importante, nella civiltà contadina, specie dell’area mediterranea, è importante quanto l’aria e l’acqua. Lo testimoniano le tante espressioni in uso nella parlata siciliana: Addisiari lu pani, Bonu comu lu pani, Dari pani a cu ’un avi renti, È un pani menu ’na fedda, È un pezzu di pani, Livarici lu pani a li picciriđđi, Mancia pani a trarimentu, Lu pani è cu li papuli, Mi vuscu lu pani, Pani persu, ecc.

A fumu calàtu (iri, arrivàri)

A colpo sicuro.
Il significato originario era arrivare in casa altrui con la tavola già imbandita, quando appunto il fumo per cucinare le vivande, o quello delle stesse, è già abbassato, non scomparso, e quindi al punto giusto per favorire.

A iđđu a iđđu ch’è cani arraggiàtu!

Addosso, addosso al cane rabbioso!
Si usa per lamentarsi di un accanimento eccessivo su qualcuno.
La rabbia è una malattia infettiva di origine virale che fino a pochi decenni fa era molto diffusa fra gli animali domestici, in special modo i cani, che la trasmettevano anche all’uomo attraverso il morso, provocandone spesso la morte.
Perciò, quando si vedeva un cane colpito dalla malattia — che, come impazzito, distribuiva morsi mortali a tutti quelli che capitavano sotto tiro, specie ai bambini — iniziava una caccia spietata per abbatterlo.
Ora, grazie alle massicce misure di profilassi che si sono attuate, in particolare con le vaccinazioni obbligatorie degli animali domestici, cani rabbiosi non se ne vedono quasi più.

A la rossa / a la suttìli

Erano due modi di pesare: sulla base del chilogrammo, per materiali pesanti; e sulla base dell’ettogrammo, per pesate più leggere. Secondo il modo, si sceglieva una delle due scale graduate di cui era provvista l’asta della stadera, sulla quale scorreva il romano.

A la rrutta

Senza discernimento.

A la scarsa

Erano le condizioni minime di assunzione di un bracciante agricolo, cioè solo la giornata senza vettovaglie.

A la squagghiàta di la nivi si vìrinu li fossa

Tutto fila liscio, ma infine arriva il momento in cui si scoprono le malefatte.

A la surda, a la muta

Tacitamente. Fare qualcosa senza farlo sapere, vedere o capire. Si dice anche A taciu maciu.

A la tunna

Acquistare o vendere una quantità di articoli senza scelta o riserva, in blocco.

A li talei (o talai)

A distanza e senza essere visti, per vigilare o spiare.

A lu caru avvičìnati, a lu mircàtu pènsaci

Diffida di ciò che viene offerto a basso prezzo.

A lu servu pačènza, a lu patrùni prudènza

Questo frammento di saggezza popolare, raccomandando pazienza al servo e prudenza al padrone allo scopo di salvaguardare il loro rapporto, in realtà mette sullo stesso piano le due figure e richiama la famosa descrizione che Hegel fa del rapporto fra servo e padrone. Il padrone, dice il filosofo tedesco, che sembra indipendente dal servo, nella misura in cui si limita a godere passivamente del lavoro altrui, finisce per rendersi dipendente dal servo; il servo, anche se pare all’inizio dipendente dal padrone, nella misura in cui padroneggia e trasforma le cose da cui il signore riceve il proprio sostentamento, finisce di essere dipendente dal padrone. Per cui le due figure sono in realtà dipendenti l’una dall’altra ed entrambe possono rendersi indipendenti l’una dall’altra.

A lu stàgghiu

Si usa per indicare un modo di affidare determinati lavori a misura invece che a giornata.

A muzzu / ’na muzziàta

Senza peso né misura, a forfait; senza un criterio, in modo sconsiderato.

A pettu

A confronto. Stari a pettu a unu significa essere di uguale forza.

A primu zuccu muscatèđđu

Zuccu è la pianta della vite e muscateđđu è un tipo di uva da tavola molto pregiato.
Il detto è usato in senso ironico quando il primo tentativo in un’impresa va male.

A quannu a quannu

Proprio ora. Dal latino aliquando.

A sanfasò

Senza criterio, a come capita. Dal francese sans faşon.

A santu Giusto ci manca ugn ìritu

Non esiste una giustizia assoluta. In Sicilia, il concetto di giustizia è molto opinabile.
Sentiamo Leonardo Sciascia: «Nel 1946 ho assistito a due processi la cui esatta intestazione era “Infrazione alle leggi sul razionamento”. All’epoca vi erano leggi particolarmente rigorose per l’ammasso del grano: i produttori dovevano consegnare il loro raccolto a magazzini controllati dallo Stato, conservando per il proprio uso personale l’equivalente di un quintale e mezzo per ogni membro della famiglia. Naturalmente i contadini ne tenevano di più e quando la polizia li scopriva, l’arresto era immediato, come pure il processo. All’epoca, io ero impiegato all’Ufficio per l’ammasso del grano, e fu per questo che dovetti partecipare ai due processi: uno riguardava un contadino in casa del quale erano stati trovati due o tre quintali di grano; l’altro un arciprete, che a sua volta era riuscito a nasconderne quindici quintali. Il processo presso il tribunale di Agrigento fu rapidissimo. Il contadino fu condannato a due anni di carcere; l’arciprete fu assolto perché il suo avvocato sostenne che non era per niente un delitto l’atto consistente nel mettere da parte del grano per distribuirlo in seguito come elemosina ai poveri e agli sfortunati, ad esempio i ricoverati negli ospedali.
Due sentenze così discordanti sullo stesso reato, date nello stesso giorno, dagli stessi giudici, mi convinsero che i fori privilegiati non erano ancora finiti, nonostante la proclamata uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.». (La Sicilia come metafora, ed. Mondadori, pag. 61).

A tinchité

A bizzeffe.

A trùgghiu

In modo arbitrario, senza regole determinate.
Deriva da truglio, che era una forma di patteggiamento giudiziario introdotto nella procedura penale del nuovo codice per le Due Sicilie e regolamentato con diversi decreti emessi tra il 1822 e il 1830: “Dicesi con questo nome il giudizio che si fa in concordia col reo in cui la pena è tutta arbitraria, calcolandovisi la probabilità di maggiori o minori argomenti di reità e d’innocenza che avrebbero potuto acquistarsi se il processo fosse stato portato al suo termine” (F.P. Castiglione, “Dizionario delle Figure, delle Istituzioni e dei Costumi della Sicilia storica”).

Abbagnàrici lu pani

Deliziarsi per qualcosa, commentare un fatto per ridere alle spalle di qualcuno.
Il pane, spesso e malvolentieri, era consumato schittu cioè senza companatico, quando andava bene era accompagnato da un pezzo di cipolla, un pezzo di formaggio o una sarda salata. Il massimo della delizia, quindi, era avere qualcosa in cui poterlo abbagnari.
Il pane oggigiorno si compra — fresco fresco o caldo caldo che dir si voglia — dal fornaio, ogni giorno, anche la domenica. Se rimane, e quasi sempre rimane, va a finire nel bidone dell’organico della raccolta differenziata. Ricordo che mia nonna, quando si doveva disfare di un pezzo di pane che accidentalmente si era sporcato, prima lo baciava, diceva la razioni, una sorta di preghiera, e poi lo buttava. In passato, invece, fino agli anni cinquanta, il pane si faceva in casa una volta la settimana e ogni giorno diventava sempre più duro.
Per completezza d’informazione, soprattutto a beneficio della generazione dello spazzolino-mattina-e-sera, bisogna aggiungere che la carie imperversava in tutte le bocche, che termini come implantologia, ortodonzia e igiene orale erano assolutamente sconosciuti e che i denti in bocca dopo una certa età erano una rarità. Non è un caso che molte delle ricette della cucina povera di una volta contemplavano il brodetto e appunto la possibilità di abbagnarici il pane. Piatto classico dell’abbagno era quello dei Babbaluci a picchi-pacchiu, in cui non si sa se valevano di più le lumachine o il pane inzuppato. A tale proposito ecco un detto usato nel palermitano: Babbaluci a sucari e fimmini a basari nun ponnu mai saziari.

Abbàlla all’ùmmira

Balla con la sua ombra.
Si dice di una persona stupida che fa solo cose insensate.

Abballàri senza sonu

Trovarsi in una situazione di pericolo o di angustia.

Abbručiàri lu pagghiùni

Sinonimo di fregare
Pagghiuni è il pagliericcio, ma la relazione con il significato del detto resta misteriosa.

Abbuccàri lu càntaru

Svuotare il pitale.
Dire l’indicibile in un momento di rabbia o disperazione. «Vaso alquanto lungo per lo più di terra per uso di deporvi gli escrementi del ventre», così lo definisce il Tropea nel suo dizionario Siciliano-Italiano. I sinonimi sono: cascetta, orinale, vaso da notte. A quanto pare, almeno in Europa, fece la sua comparsa in epoca romana e fino ai primi decenni del 1900 era usato per fare i propri bisogni, essendo la costruzione delle latrine e dei bagni nelle case private, più o meno come li vediamo adesso, una comodità piuttosto recente.
La pratica di Abbuccari lu cantaru, cioè di svuotarlo del suo contenuto, avveniva nel modo più sbrigativo che era quello di buttarlo fuori di casa, di prima mattina, dalla porta o dalla finestra, in mezzo alla strada. E difatti, le strade e i vicoli delle città erano ricettacoli di merda e di urina che spesso scorreva nelle cunette trasformandole in piccoli rigagnoli. Ma era considerato normale, com’era considerato normale fare i propri bisogni davanti agli altri senza vergogna. A questo proposito riporto un gustoso episodio raccontato dalla penna arguta di Gaetano Basile nel suo libro “Dizionario sentimentale della parlata siciliana”, ed. Flaccovio: «Seduto sul cantaru, stava il Presidente della Gran Corte Cardillo, ospite del re Ferdinando di Borbone a Ficuzza per una partita di caccia nel bosco. Era abitudine del sovrano svegliare personalmente i suoi ospiti e fu così che Sua Maestà trovò l’Alto Magistrato in camicione da notte e pure senza parrucca… Proviamo a immaginare l’imbarazzo del poveretto che, balbettando, rispettosamente chiese: “Maestà, il caso è nuovo: devo alzarmi o restare seduto?” “Seduto, seduto, ma facite ampressa …” rispose napoletanamente il Re Nasone, ridendo».
Soprattutto alle giovani generazioni che vivono in Occidente, tutto ciò sembrerà strano e forse non tutti sanno che la carta igienica in rotoli fece la sua comparsa, in America, solo nel 1890 e che ancora adesso il quaranta per cento della popolazione mondiale non dispone di un gabinetto.

Accàtta e pèntiti

Significa che è sempre bene comprare … la roba, ovviamente.
«E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l'aveva. E non l'aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai dodici tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava e usciva come un fiume dalla sua casa.
Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può né venderla, né dire che è sua». (G. Verga, Mastro don Gesualdo).

Acchiàna di puppa e scinni di prua

Sale di poppa e scende di prua.
È una similitudine per rappresentare la legge della compensazione. Come nella barca, in cui a ogni innalzamento della poppa corrisponde un abbassamento della prora, così in tutte le cose della natura ogni azione provoca un effetto uguale e contrario. Si usa anche per esprimere disappunto quando un successo rivela lati negativi.

Acqua, cunsìgghi e sali: senza addumannàti \’un ni rari

I consigli si danno quando sono richiesti, proprio come per un bicchiere di acqua fresca che-ho-sete o un pugno di sale che-m’è-finito.
A proposito, Leo Longanesi diceva: Non datemi consigli! So sbagliare da solo.

Acqua di rocca, stìcchiu di zoppa

Considerati entrambi beni pregiati. Per il primo si può facilmente capire: l’acqua che sgorga in alta montagna, infatti, è notoriamente fresca, limpida e spumeggiante, in alcuni luoghi addirittura considerata miracolosa, ed è anche l’unico rimedio omeopatico di Bach non ricavato da un fiore (Fiori di Bach). Per il secondo bisognerebbe chiedere a chi l’ha provato.

Acqua passàta ’un mačìna mulìnu

Si dice di una cosa morta che non ha più valore e di cui non serve neanche parlare.
L’acqua che scorreva nei fiumi, o che sgorgava dalle sorgenti, aveva anche funzione di energia perché attivava vari meccanismi, soprattutto sistemi d’irrigazione e mulini per macinare il grano.
La Sicilia occidentale, soprattutto la provincia di Trapani, era molto ricca di mulini ad acqua e d’ingegnosi sistemi d’irrigazione di origine araba, recentemente individuati e fatti oggetto di studio dal “Progetto Aramis” guidato da Luciano Cessari, i cui risultati sono esposti presso il “Museo Etnoantropologico Annalisa Buccellato” di Castellammare del Golfo. L’acqua, dopo avere battuto sulle pale e impresso alla ruota dentata il movimento rotatorio necessario, naturalmente non aveva più valore.

Acqua davànti e ventu darrè!

Buon viaggio e vento in poppa!
Ma non è un augurio, come può sembrare, perché si usa ironicamente per congedare qualcuno in malo modo.

Ad àrvulu carùtu, accètta accètta

Su un albero abbattuto colpi di accetta.
Il destino si accanisce su chi è in disgrazia. Con significato analogo c’è anche A cavađđu mairu muschi.

Ađđìna chi camìna torna cu la bozza china

È una sorta d’invito all’operosità.
Molti modi di dire e proverbi siciliani (Avi l’ovu vutatu, Dunni t’arridducisti ađđu di Sciacca a essiri pizzuliatu di la ciocca, Ađđina vecchia fa broru bonu, L’ađđina fa l’ovu e a lu ađđu ci abbrucia lu culu, Aviri la scorcia ’culu, Figghiu di l’ađđina bianca, Curcarisi cu li ađđini, L’ađđina si spinna a la morti) fanno riferimento a galli e galline perché l’allevamento avicolo familiare era per i nostri antenati un aspetto fondamentale della loro vita, da tempi immemorabili fino a non più di cinquant’anni fa, quando in ogni casa, anche la più povera, non mancava mai la stia davanti alla porta, che si metteva fuori la mattina e si rientrava la sera. Cinque o sei galline, infatti, oltre a soddisfare il fabbisogno giornaliero di uova e a fornire il brodo della gallina vecchia di tanto in tanto, erano anche un modo intelligente di attuare lo smaltimento ecologico dei rifiuti organici. Altri rifiuti, a dire il vero, neanche ce n’erano poiché prima dell’avvento del consumismo si riciclava (o si conservava, perché non si sa mai) quasi tutto.
Per sapere quale delle galline durante la giornata avrebbe fatto l’agognato uovo, la padrona introduceva il dito medio nell’orifizio anale (altrimenti detto culo) di ogni bestiolina. Quella che per l’età smetteva di fare uova, detta ađđina scacata, aveva il destino segnato e alla prima festa, o semplicemente la prossima domenica, finiva nella pentola.

Addisiàri e ’unn aviri, è pena di murìri

Spesso si usa in tono scherzoso, ma resta la drammaticità del suo significato. Un altro detto legato strettamente a questo è: “Cu addisia e cu schifia”.

Addisiàri lu pani

Bramare il pane equivale a trovarsi nel massimo dell’indigenza.

Addìu cugghiùna mei (ci rissi lu porcu quannu lu sanàru)

Si usa quando si viene privati di qualcosa senza troppo rincrescimento. Com’è noto, il maiale era castrato per farlo ingrassare. Quindi quando gli si tagliavano i testicoli, tutto sommato, non era una grave perdita perché era nutrito bene e ingrassava.
Questo almeno era quello che pensava il contadino, specialmente se la sua mente era ottenebrata da fame atavica. Non conosciamo naturalmente il punto di vista del porco.

Addìu pasta rattàta / Addìu peri di ficu

Un saluto irriguardoso o ironico rivolto a persona tenuta in scarsa considerazione.
Per pasta rattata (o saliata) si intende la pasta con il cacio grattugiato sopra. Addiu, come pure Salutamu, era un saluto che si rivolgeva a persone di rango inferiore e, com’è noto, anche oggi si usa per accompagnare qualcosa andato perduto o per salutare i morti. I saluti più comuni erano Bonciornu! Bonasira! Bonanotti! I saluti di massimo rispetto, dall’inferiore al superiore nella scala sociale o nell’età, erano il bacio della mano levandosi il berretto, Vossabinirica! o Voscenza Binirica! seguiti da Biniritto! oppure Diu ti binirica! E ancora Baciamu li manu.
Evidentemente, sia la pasta rattata sia l’albero di fico non erano ritenuti una perdita grave.

Ađđizzàri li ammi a li cani

Tentare un’operazione stupida e impossibile.
Lascia stare le cose come stanno e vivrai tranquillo! Questo sembra raccomandare chi usa questo detto, anche se riconosce che la cosa in questione è effettivamente storta. Appartengono a questa filosofia di vita diciamo arrendevole e conciliante, altri detti come: Munnu ha statu e munnu è, Cu mancia fa muđđichi, Lu mulinaru s’infarina ecc.

Agghiùttiri sputàzza

Imporsi il silenzio quando si ha ragione, per evitare di replicare duramente a qualcuno, per prudenza o soggezione.

Agguànta ’na màgghia

Sospendere il discorso per fare una correzione o per aprire una parentesi. Preso dal linguaggio marinaro, si dice quando si scorre la rete da pesca, per il sopravvenire di una situazione di emergenza.
La rete si scorre quando si cala in acqua o quando si ammasa, cioè si raccoglie a ruota sopra la barca. Sono entrambe azioni molto delicate che vengono eseguite in maniera quasi solenne, stando attenti a non commettere errori.

Agnèđđu e sucu e finìu lu vattìu

La conclusione di una festa, con delusione.
Le cerimonie di una volta, infatti, naturalmente per le classi agiate, erano costituite da un gran numero di pietanze consumate a volte nell’arco di un’intera giornata. Le classi meno abbienti, invece, si limitavano a offrire taralli e liquori fatti in casa, serviti dallo sposo, che reggeva il vassoio, e dalla sposa, che li offriva. Chi se lo poteva permettere dava più passate, fino a cinque che era il massimo, serviti da parenti stretti, e anche il ballo con la musica ad opera di suonatori dilettanti.

Allàscati d’u caliatùri!

Stai alla larga!
È l’avvertimento che dava il venditore di calia agli avventori che si avvicinavano per assaggiare mentre arrostiva i ceci insieme a sabbia di mare su un grande piatto di metallo, chiamato caliaturi, sopra il fuoco vivo. Per metafora, un avvertimento di pericolo per chi s’impiccia di cose che non gli appartengono.
Il verbo allascàri significa allontanare, separare e si usa anche riferito a un recipiente di legno (allascàtu, lascu) quando le doghe si sono separate per essiccazione.

Ama l’amìcu to cu lu vìziu so

L’amico vero si deve accettare così com’è, con tutti i suoi difetti.

Amàru cu è mortu nna’ lu cori d’atru

Si dice con riferimento a qualcosa di sinistro che incombe sulla testa di una persona. Evoca il rancore, la ruminazione continua e torturante per un torto subito. Spesso è usato per annunciare vendette consumate o presagire vendette imminenti.




(dal web)
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