L'isola del giorno dopo
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Racconti siciliani: Luigi Capuana - Lo stemma  Empty Racconti siciliani: Luigi Capuana - Lo stemma

Sab 26 Ago 2023 - 18:54
Racconti siciliani: Luigi Capuana - Lo stemma  AqXfGnQ

Lo stemma


Da che si erano sposati non avevano passato un solo giorno senza leticare: e si erano sposati quasi vecchi, lui a quarantacinque anni, lei a trentasette. Altro che età del giudizio! Ma si vedeva che quel benedetto dente non era spuntato a nessuno dei due.
Don Pino Miraglia non aveva un mestiere, ne esercitava però parecchi secondo gli capitava.
– Avrei dovuto fare l'avvocato – soleva dire.
Infatti chiacchiera ne possedeva da rivenderne; e polmoni anche, perchè non sapeva parlare se non alzando la voce, gesticolando come un predicatore, afferrando pei petti del vestito colui che pareva non volesse lasciarsi convincere dalle sue ragioni, e tenendolo là, fermo, finchè quello anche per liberarsi dall'assalto, non diceva di sì.
E per ciò era attorno da mattina a sera, quasi non avesse la roba sua da curare, invece di lasciarla in mano del mezzadro, come gli rimproverava ogni giorno donna Battistina.
– Che pretendi? – le rispondeva don Pino. – Che io vada a zappare, ad arare, a sarchiare?
– Non fate lo stupido. Voi capite bene quel che intendo dirvi. L'occhio del padrone ingrassa il cavallo.
Ma oggi per una cosa, domani per un'altra, egli non trovava mai il tempo di andar a vedere come andavano le faccende a Pollitrelli.
Poteva lasciar per aria le trattative del matrimonio della massaia Rizzotto con don Felice, il merciaio? Ci si era messo lui e voleva condurlo a fine. Aveva però da fare con certe teste! Ci voleva tutta la sua pazienza per dare un colpo al cerchio e uno alla botte! E in questo caso la botte era la massaia, grassa, tonda, una cassata di ricotta e miele, che pareva ringiovanisse a ogni marito che scorticava; e ne aveva già scorticati tre!
Don Felice il merciaio aveva paura di poter essere il quarto. Si era messo in testa che soltanto la donazione avrebbe potuto salvarlo, e puntava i piedi a terra, con le spalle al muro:
– O la donazione, o niente!
Ma santo cristiano, non dubitate. La donazione verrà dopo!
E la massaia:
– Vuol sposar me o la donazione? Io non ho parenti; se muoio, il poco che ho va al marito.
– È quello che dico io! – rispondeva insinuante don Pino. – Farla o non farla è lo stesso. Anzi, dico io, forse è meglio farla, per l'occhio della gente.
– La gente badi ai fatti suoi! Io mi regolo con la mia testa!
Era una fatalità! Don Pino doveva incontrarsi sempre con persone cocciute, come Funciazza e Virmiceddu. Da due anni stavano ogni giorno lì lì per ammazzarsi a cagione di quattro spanne di orto che non valeva dieci soldi. E lui:
– Faccio un taglio io?... O pure uno i quattrini e l'altro il terreno, e sarebbe più giusto?
– L'orto è tutto mio: le carte parlano chiaro.
– Ma che carte, caro Funciazza!... Scusate se vi chiamo così. Si sa: la ingiuria avanti e il vero nome dietro.
– L'orto dev'essere tutto mio!
– Pure Virmiceddu dice così: «Finirò col prendermelo io e mettermi a piantarvi lattughe, cavoli, agli,! Ma guarda se tra cognati ci dev'essere l'inferno per così poco!
– Credete che io letichi per interesse? –rispondeva Virmiceddu – Non voglio soffrire soperchierie.
– Soperchierie niente. Non ci metterei un dito, se potessi supporre....
E, senza perdersi d'animo, andava a presentarsi da Scoddu, che strigliava il cavallo baio davanti a la porta della stalla
– Dunque, si deve conchiudere questo cambio?
– Lo domandate a me? Il cavallo eccolo qui, coi fianchi pieni, lucido...
– Anche il mulo di Nardo Lentini è là grasso e lucente.
– Per chi manca? Lui guadagna nel cambio; e se non mette fuori....
– Si metterà fuori... qualche cosa! Quel mulo è più forte di un cavallo. E io, se fossi in te, non ci penserei due volte...
– Che venite a imbrogliarmi? Mi pento di aver chiesto poco; ma... si dice: il bue per le corna e l'uomo per la parola. Mi son lasciato afferrare e non mi tiro indietro.
– Cento lire! Sono anche troppe, in coscienza! – Mi trovo spiegato per duecento...
– Centocinquanta... E sta zitto. Vado a prenderle?
Nardo Lentini, alla sua volta:
– Ma che vi siete messo in testa? Di rovinarmi? Le lire vi sembrano fave? Se il cavallo può far comodo a me, il mulo pel carretto di Scoddu, vale più del cavallo...
– Ed ecco, ti rimangi?...
– Non mi rimangio nulla.
– Le cinquanta lire in più ce le rimetto, io, giacchè vuoi così.
– Voi non ci entrate!
Come se si cominciasse a parlarne ora di quel cambio!
E doveva impedire che il figlio del Magliolo commettesse la stupidaggine di scappare con la ragazza di donna Mara Longo, e di mettersi in un guaio perchè quella era minorenne.
– Cara Mara, lo sapete come suol dirsi «Matrimoni e vescovati dal ciel son destinati».
– A tempo e luogo, caro don Pino. Mia figlia non ha fretta.
– Vi pare. E se non l'ha lei, c'è un altro che l'ha... e non si sa quel che può succedere.
– Non mi mettete questa pulce nell'orecchio!
– Un anno prima o un anno dopo vale lo stesso. I ragazzi di oggi non sono, come quelli del nostro tempo, con gli occhi chiusi; nascono ammaliziati. Io vado attorno, sento, ascolto... Cose che non stanno in cielo nè in terra! Che possiamo farci? Il mondo è ridotto così... Dunque...
– Dunque che cosa?
– Maritiamoli... per scrupolo di coscienza. Il figlio dei Magliolo è un picciuteddu buono, lavoratore, ed ha la roba della madre, che non guasta.
– Ne riparleremo, caro don Pino!
– Le cose lunghe...
– Diventano serpi? Tanto meglio; vuol dire che non c'è la volontà di Dio.
– Devo dirvelo? Voi pensate al nipote del Dott. Mancuso.
– Penso a mia figlia che ha appena diciassette anni.
Il figlio dei Magliolo lo attendeva nel piano di Santa Maria per la risposta.
– Io me la dovrei prendere con tuo padre che non ti fa uscire dalla testa il sangue pazzo! Non ti lusingare. Con donna Mara Longo non si scherza. E quando si tratta di minorenni la Giustizia tira diritto. E allora, tu in carcere e lei... Con le ragazze non si sa mai! Ci è sempre qualcuno che non guarda tanto per il sottile. Avrai fatto questo bel guadagno.
– Ma dice sì? No?
– Nè sì, nè no! Prende tempo di decidersi.
– Gliela faccio, per affronto!
– Così le vuoi bene alla ragazza?
– E poi gliela lascio... pel nipote del dottor Mancuso.
– Da' retta a don Pino Miraglia! Ci ho messo le mani io e voglio conchiuderla io questa faccenda. Ti pare che m'importi di donna Mara? M'importa di te che sei figlio di un vecchio amico; che quando eravamo giovani ci spartivamo anche il sonno, come suol dirsi. Lasciami tentar un altro po'. Se mi convinco che non c'è da sperar niente... Vado a prenderla io per una mano e a condurtela dove vorrai... L'ho detto anche a tuo padre... Ma, per ora, fuga niente!
– Sangue di...!
– Lascia stare il sangue... e il vino. Mi scordavo che ho un appuntamento per quell'imbecille di Neddu Macca, cugino del mio barbiere.
Era scappato di corsa.
Entrò nel Salone. Nessun avventore. I giovani dormicchiavano.
– È venuto Neddu Macca?
– Ha atteso più di una mezz'ora; dice che tornerà.
Don Pino cavò di tasca l'orologio. Si era sbagliato di un quarto d'ora. Che si figurava? Che Don Pino Miraglia fosse il suo servitore?
– E mastro Antonio Lo Scalzo si è visto?
– Eccolo.
– Manca Neddu: intanto potremo parlare noi. È un galantuomo...
– Non dico di no; ma quando si tratta di pagare...
– Anche il Re, certe volte, si trova a corto di danari...
– Non fa cambiali o alla scadenza...
– Va bene: ora bisogna rinnovarle.
– E gli interessi? Almeno gli interessi. Devo campar d'aria? Io le do in mano del notaio e poi dell'usciere...
– Non lo dovete dire neppur per scherzo. Sono...
– Mille e cinquecento lire.
– E lui ne ha avute?
– Mille e cinquecento. C'è la sua firma.
– Avete una gran faccia tosta! Oh! Io posso parlare; e so parlare e, anche occorrendo, andar a parlare con qualcuno... che non vi farebbe piacere, perchè certe operazioni di apparenze innocenti, davanti all'occhio del magistrato diventano tutt'altra cosa. Ma qui non si vogliono far scandali; quando mi mescolo io di una cosa è sempre a fin di bene... Ve lo siete spolpato vivo vivo quel povero Macca? Basta ora; basta. Un po' di prudenza! Il quindici, il venti per cento, ma all'anno, non al mese... Ci credete all'inferno? E andate a messa! E siete confratello di San Vito! Avete mai detto al confessore prendo....
– Vossia mi fa la predica! Non ne ho bisogno.
Arrivava in quel punto Neddu Macca.
– Chiedo scusa...
– Dovreste chiedermela prima di farvi legare mani e piedi. Fortuna che qui Mastr'Antonio è uomo di coscienza... Zitto! Lasciatemi parlare... Vi dispiace che dica che siete uomo di coscienza? E le cose si accomoderanno con soddisfazione di tutti... Zitto! Dove sono le cambiali! Le avete lasciate in casa? Ooh! Dovrò perdere un'altra mezza giornata di tempo! Domani dunque, a casa mia, verso le otto.
E tornava a casa. Donna Battistina l'affrontava su l'uscio.
– Orologi per voi non ce ne sono?
– Lasciami mangiare in pace! Mangia in pace anche tu!
– Vi hanno visto entrare dalla massaia Rizzotto...
– Sei gelosa?
– Per me, potete sposarvela...
– Già! Divento il Sultano dei Turchi...
Sbuffava, pensando a quel che aveva fatto e a quel che gli rimaneva da fare. E infilando una cocca del tovagliolo fra collo e colletto, brontolava contro quella gente che gli faceva perdere tanto tempo senza concludere niente. Un boccone e un sospiro: – Ah! – Un boccone e un sospiro: – Ah!
Donna Battistina mangiava in fretta in fretta, quasi avesse dietro qualcuno che la inseguisse; e a don Pino, che voleva almeno mangiare con comodo se poi doveva riprendere a correre di qua e di là, da questo e da quello, il rumore dei rapidi sorsi di sua moglie faceva rabbia.
– Col pericolo di strozzarsi! – l'ammoniva.
– Non dubitate; me ne vado per altri otto giorni a Pollitrelli a far la massaia, giacchè quelle povere terre non hanno padrone!
Da qualche tempo in qua donna Battistina era stata presa dalla tenerezza per quelle terre, che non avevano padrone, e a don Pino non sembrava vero di passar qualche settimana senza bisticciarsi con lei; in certi momenti sua moglie diventava proprio insopportabile.
Così egli poteva badar con piena libertà ai suoi affari, che poi erano veramente gli affari degli altri.
Ma sedendosi a tavola solo, a ingoiare quei quattro bocconi, preparati malamente dalla vecchia donna di servizio, egli si maravigliava di sentir mancarsi, oltre al rumore dei frettolosi sorsi, lo stridio dei ripicchi di sua moglie, che quando cominciava non la finiva più...
– Che vuol dire l'abitudine! – pensava filosoficamente don Pino.
E un giorno che era in ozio – caso raro! – pensò di fare un'improvvisata a sua moglie, a Pollitrelli. Chiese in prestito l'asina all'amico Macca; e sarebbe giunto là zitto zitto, se la bestia, forse alla vista della mangiatoia murata accanto alla porta della casa, non avesse sentito il bisogno di metter fuori un lungo sonoro raglio che fece affacciare alla finestra il mezzadro e donna Battistina, interrotti nel meglio del desinare. Masticavano ancora il boccone non potuto ingoiare, e lei, diventata rossa rossa, aveva spalancato gli occhi dalla sorpresa.
– Che vuol dire... voscenza? – esclamò il mezzadro.
Sceso sùbito giù, toglieva di mano al padrone la cavezza dell'asina. E attaccando questa alla mangiatoia e liberandola dal basto, egli tornava a maravigliarsi:
– Quando, mai, voscenza?... Miracolo!... Bell'asina! E quella di don Arcangelo Macca; la riconosco... La padrona prendeva un boccone. Anch'io... In campagna si fa alla buona.
Alla buona? Don Pino si avvide sùbito che donna Battistina aveva tentato di far sparire, coprendolo con un altro piatto e mettendolo in un canto per terra, il piatto dei maccheroni del mezzadro, avvolgendo alla meglio la posata e il coltello nel tovagliolo di lui, e buttandoli in un angolo dietro l'uscio.
– Potevate avvisarmi! – ella disse – Ora dovete adattarvi.
– Mangio la parte di compare 'Nzulu – rispose don Pino, godendo dell'imbarazzo di quei due.
Non già che sospettasse niente di male. Era naturalissimo che la padrona facesse desinare con lei il mezzadro; in campagna, aveva detto quello, si fa alla buona.
– Credevo che potesse dispiacervi... – si scusò donna Battistina.
E don Pino ripeteva internamente:
– Alla buona? Ma un piatto di maccheroni col sugo di pomidoro, ma un pollo a ragù, ma un coniglio arrosto non li ho mai mangiati in un solo desinare al paese!
Si mise in allegria. Volle che compare 'Nzulu riprendesse il suo posto a tavola e terminasse di mangiare il piatto di maccheroni rimasto a mezzo.
– E vostra moglie? – domandò.
– È andata al paese questa mattina; verso sera sarà qui. Doveva venire da voscenza, se mai avesse comandi per la signora.
– Non mi ha trovato.
Don Pino pensava anche:
– L'aria di campagna fa bene a mia moglie. Al paese, a tavola, a quest'ora già mi avrebbe stordito! E là, anzi, s'informava: – Come vi fa mangiare la za' Concetta?
Si era pentito di aver risposto:
– Se non badassi alle pentole anch'io!
Donna Battistina aveva preso questo pretesto per voler andar via da Pollitrelli assieme con lui.
Evidentemente l'aria di campagna giovava a sua moglie... ma in campagna. Al paese ella ridiventava quella che era prima, anzi peggio.
Meno male che gli affari lo costringevano a star fuori di casa tutta la santa giornata, eccetto quella tormentosa ora del desinare e l'altra della cena. A letto, egli aveva la fortuna di addormentarsi senza neppur aver tempo di recitare un'avemmaria.
Don Pino, intanto, aveva notato che da un pezzo in qua quelli che chiamava i suoi affari andavano tutti a rotta di collo. Il matrimonio di don Felice il merciaio con la massaia Rizzotto sempre allo stesso punto!... I cognati Funciazza e Virmiceddu per quella spanna di orto si erano accoltellati, e Virmiceddu si trovava in carcere e Funciazza all'ospedale. Sul meglio, il mulo di Scoddu era morto di cimurro in otto giorni, e Scoddu, dalla disperazione, aveva tentato d'impiccarsi nella stalla, salvato a stento da un vicino arrivato in tempo a tagliare la corda. La figlia di donna Mara Longo era scappata, sì, ma col giovane sagrestano di San Pietro; e i Magliolo ora se la prendevano con lui, don Pino, che aveva consigliato; – Niente fuga! Ci ho messo le mani io!. – E si vedeva! – I Magliolo non lo salutavano più. E Neddu Macca e gli altri, tutti contro di lui, perchè da un pezzo in qua, se lui chiamava: bianco! veniva sùbito nero! Qualcuno aveva buttato la jettatura su lui e su la sua casa! Non poteva essere diversamente.
Una mattina, passando davanti a la macelleria di Scatà, don Pino aveva visto sul pancone un bel paio di corna strappate proprio allora allora dalla testa del bue macellato quel giorno.
– Ah! Ecco lo scongiuro da portar a casa!
Non discusse intorno al prezzo; e quando ebbe fatto ripulire, verniciare, fissare su una tavoletta di legno le due magnifiche corna lunghe e curve, nere come l'ebano, volle che un operaio la inchiodasse in alto, sotto il davanzale della finestra sovrastante alla porta.
– Non vi vergognate?... Neppure i contadini, ormai!... Io più non potrò accostarmi alla finestra: la gente mi riderà in faccia!... Non vi vergognate?
– Chi si guardò, si salvò! – rispose placidamente don Pino alla sfuriata della moglie.
Nemmeno le corna valsero a vincere la iettatura.
Ma le male lingue dissero:
– Don Pino Miraglia ha inalberato il suo stemma...
Morendo, sei mesi dopo, per un attacco di angina, egli ebbe però la ventura di andarsene all'altro mondo senza sapere perchè le male lingue avessero detto così. E fu l'unico ultimo affare che gli andò bene!

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Fonte: Luigi Capuana - Nostra gente

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(Michel Houellebecq)
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