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Racconti siciliani: Luigi Capuana - Il banditore  Empty Racconti siciliani: Luigi Capuana - Il banditore

Lun 3 Apr 2023 - 17:51
Racconti siciliani: Luigi Capuana - Il banditore  D8Q71yB

Il banditore


Lo avevano chiamato sin da ragazzo lo Storto perchè era nato con una gamba più corta dell'altra; e dopo, se uno avesse domandato di Neli Frisinga, tutti gli avrebbero risposto: – Non lo abbiamo mai sentito nominare in Mineo.
E su gli scalini del Collegio o su quelli dello Spirito Santo si vedeva tutti i giorni lo Zi' Carmine Cima, che si godeva il sole, con la gruccia tra le gambe ed era dieci volte più storto di lui.
Lungo, magro, aggrinzito, giallo da parere che avesse sempre addosso l'itterizia, non se la prendeva affatto se lo chiamavano lo Storto. Se però gli dicevano che non era il primo banditore della città, allora, sì, si arrabbiava.
– Volete scommettere che dalla Piazza del Mercato mi faccio sentire fino alla Pusterla e alla Tagliata? Scommetto un quartuccio di vino. Appunto, ho la gola asciutta; mi farebbe comodo.
Donde lo cavava quel vocione? Se lo sapeva lui! Ma quando, addossato allo spigolo del portone del Collegio, urlava quel che gli veniva suggerito da don Leandro, il servente comunale, per gli incanti che si facevano in Segreteria, lo sentivano fino i sordi.
Aveva acquistato oramai una maestria da sbalordire. Pareva che bandisse in musica con quelle pause con quelle alzate di voce in cadenza, quelle monotonie di uso e quei finali che schiantavano secchi secchi:
– E son tre voci!
Per questo mestiere dovevano andare a baciargli la mano. E se il Pantano o il Macchinista cominciavano a bandire da qualche bottega d'erbaiuolo i cavoli fiori di Palagonia o i sedani di Lenzacucco o le lattughe dello Zuffondato, egli si metteva a sorridere di compassione, e scrollava la testa:
– Non è per invidia, signore Iddio! Si deve campar tutti a questo mondo... Ma questa è maniera di bandire?
E, sottovoce, rifaceva il bando come andava fatto, per amore dell'arte. Se poi il Macchinista continuava a squarciarsi la gola, pari a lupo coi dolori di pancia, egli si rizzava, indispettito dagli scalini del Collegio dov'era il suo posto da mattina a sera, e scappava via arrancando più del solito:
– Va! Ci patisco.
O pure si metteva a bandire per conto proprio le acciughe di mastro Nofrio, o il vino dello Scatà, e i pomodoro del su' Jeli, o le cipolle della Mula, per far tacere quei guasta mestieri che del bandire non capivano un'acca e non volevano apprendere.
– Già, in nome di Dio, bisogna nascer banditore dal ventre della propria mamma!
– Tu allora dovresti essere un galantuomo, – gli diceva qualcuno.
Ed egli rispondeva:
– Io, almeno, lo so con certezza di chi son figlio, quantunque figlio di Dio; mentre tant'altri non possono dire chi gli abbia fatto un braccio o una gamba. State zitti!
Per questa sua origine civile egli assumeva una certa aria seria e dignitosa fra quei facchini, macellai, bottegai e uomini di campagna che andavano a sedersi insieme con lui su gli scalini del collegio e facevano crocchio, ragionando del più e del meno: della pioggia che non veniva, del carro nuovo del Lavecchia che presto si sarebbe mangiato alla taverna carro, mulo e sella coi sonaglini e con la banderuola; ogni cosa insomma.
– Qui, su questa gradinata, si legge la vita anche a Cristo, sia lodato e ringraziato; e Domineddio, per ciò, – sentenziava lo Storto – ci concia per le feste! Al giorno d'oggi non si fa che sparlare del prossimo e bestemmiare i santi e la Madonna. Quei che puzzano di lattime sono peggio dei vecchi.
– Fa il predicatore lo Storto!
– Dico la verità, chi vuol sentirla.
– L'altro giorno intanto tu ti lavavi la bocca di don Domenico, per via della casa. Quel galantuomo te la pagherebbe un terzo di più, e anche il doppio del prezzo. Perchè non gliela dài?
Toccandogli il tasto della casa, lo Storto diventava più giallo del solito, e gli s'inaridivano sùbito le labbra.
– Perchè? Perchè così mi piace. Venisse il re in persona, e non potrebbe dirmi: Esci di lì. Se don Domenico ha la pancia grossa e piena zeppa di quattrini, a me non mi fa nè caldo nè freddo. Un tozzo di pane me lo so guadagnare. Benefattori, in tutti i casi ce n'è sempre a questo mondo; ed io, quando càpita, non ho punto vergogna di stendere la mano. Ma da quelle quattro mura uscirò soltanto coi piedi avanti, quando vorrà il Signore; i giorni dell'uomo sono in mano di Dio...
Ecco, ora non la finisce più!
 
***
 
Don Domenico gli avrebbe accorciato anche l'altra gamba e lo avrebbe pagato per nuovo, se non fosse stato il timore della giustizia, e se sua moglie non lo avesse più volte afferrato per una falda del vestito, quando veniva l'ingegnere a prender le misure, e Neli, seduto sullo scalino dell'uscio, con quel visaccio giallo e quella gambaccia torta, zufolava quasi per provocarlo.
– Almeno io non ho gli occhi uno a Cristo e l'altro a Maria! – brontolava sottovoce – Se sono storto, lui è guercio; pari e patta.
E mentre l'ingegnere misurava da una cantonata all'altra, egli continuava a zufolare, serio e accigliato, o acchiappava mosche sui ginocchi.
L'ingegnere con la mano in alto indicava ogni cosa, come sarebbe stato quando don Domenico avrebbe fabbricato: qui i terrazzini, lì la cantonata della casetta dello Storto; ma questi, vedendogli fare l'accenno col dito, brontolava un motto sconcio da bambini:
 
Stràppalo e piàntalo!
Piàntalo bene.
In bocca ti viene!
 
– O che siamo di carnevale?. – gli domandò Pupo d'inferno, che passava di là con la cassetta di mercerie al collo e sapeva la cosa.
– Andiamo via, se no faccio qualche bestialità! –– disse don Domenico che masticava bile da due ore.
E d'allora in poi l'ingegnere non venne più, perchè era inutile; senza la casa dello Storto non si poteva murar neppure un sasso.
 
***
 
– Finalmente don Domenico l'ha capita!
Lo Storto continuò a bandire, nella Piazza e per le vie, tutti gli incanti e tutte le gabelle; il vino vecchio e il vino nuovo; il pesce vivo, a una lira; il cotone di Biancavilla arrivato quella mattina, bianco come spuma; l'argentiere di Sortino, che aveva tante belle galanterie, sotto il Monastero Vecchio, andassero a vedere; e il napolitano ch'era nella locanda del grammichelese e aveva mussoline e lanette: Oh che bellezza!
La sera tornava a casa rifinito; e mangiati quattro bocconi di pane e un'acciuga, o un po' d'aringa coll'olio, e bevuto due soldi di vino, vera grazia di Dio, se n'andava a letto.
Gli pareva di essere un principe in quella cameretta affumicata, su quel pagliericcio bucherellato e quella graticciata che scricchiolava appena egli faceva un movimento.
– Qui son vissuto e qui voglio morire. Don Domenico può darsi pace; non la spunta. Ho la testa dura, da quel mulo che sono.
E sghignazzava.
Questo non era peccato. Sereno di coscienza, non faceva male a nessuno. Se don Domenico fidava nella propria pancia, nei propri quattrini e nei propri occhi uno a Cristo e l'altro a Maria, egli fidava nella beata Vergine e nel patriarca San Giuseppe. Tutto quel che veniva fatto a lui, povero Storto, Gesù Cristo lo scriveva nel libro di lassù, dove nulla si cancella!...
– Ecco, ora mi sfonda il tetto buttando spazzatura dal finestrino di cucina! Bùttati tu, con la tua panciaccia, se hai coraggio!
Tutte le sere così. I tegoli erano divenuti una bozzima; e quando pioveva, gli pioveva in camera quasi fosse stato a cielo scoperto
– Infamità! Ma i poveretti, si sa, non possono aver fatta giustizia; chi ha quattrini compra anche questa!
E intanto che don Domenico, dal finestrino di cucina, continuava a buttare buccie di cocomeri, cocci e spazzatura, e pareva che un esercito di topi ballasse sul tetto; lo Storto, per fargli dispetto, si metteva a bandire le sardelle vive vive a una lira, e il cotone di Biancavilla bianco come la spuma, e la gabella della tenuta di Calcagno....
– E son tre voooci!!
– Crepa! – rispondeva don Domenico.
Invece crepava lui dalla rabbia, e diceva omnia maledicta del Codice perchè non aveva un articolo a posta per quella circostanza.
– Glieli pagherei un terzo di più del prezzo, e anche il doppio, quei quattro sassi che si reggono su con lo sputo. Ma la superbia se lo rode vivo quello stortaccio.
– Volete ammalarvi? gli diceva la moglie che s'era tolta la parrucca per andare a letto e si avvolgeva la testa in un fazzoletto rosso di cotone. – La fabbrica, se non la faremo noi, la farà il figliuolo che è a Napoli e sarà presto dottore.
– Quello lì non pensa che a sciupar quattrini, e non arriverà neppure a fare il maniscalco, ve lo dico io!
E tornava allo Storto.
– Lo speziale mi ha detto: – Dovreste prenderlo con le buone. – Proveremo.
Ma, dopo una certa tregua dal finestrino di cucina, il giorno che gli mandarono un piatto di maccheroni col sugo e un pezzo di carne di maiale, lo Storto rispose alla serva:
– Ringrazio della carità. Se però lo fanno per la casa, dite pure ai vostri padroni che è tempo perso. Non gli vo' mangiare questi maccheroni a tradimento.
– E intanto se li è mangiati!
Don Domenico avrebbe voluto tirarglieli, filo per filo, fuor della gola. E ricominciò dal finestrino di cucina, peggio di prima. E lo Storto, in risposta, gli urlava le cipolle della Mula e il vino nuovo dello Scatà.
Ma la notte che gli venne la febbre e sentiva spezzarsi il cranio, e quasi non capiva più dove si trovasse, lo Storto si perdette di coraggio.
– Avete la testa dura! – gli disse comare Angela del saponaio, come la chiamavano, vedendolo seduto due giorni dopo su lo scalino dell'uscio, mezzo morto. – Su mettetevi al sole.
E lo condusse per la mano là di faccia.
– Avete la testa dura!
Egli accennò, col capo, che di quella cosa non ne voleva ragionare.
Comare Angela non ne parlò più; e la mattina dopo tornò, per vedere se era vivo o morto; e gli rifece il letto, gli spazzò la casa.
– Solo solo, a questa maniera, potreste morire di stento come un cane, e nessuno se ne accorgerebbe. Dio non vuole. Dovreste averne scrupolo di coscienza. Occorre una donna in queste circostanze.
– Abronunzio! Libera no sdomine! – rispose lo Storto, col capo tra le mani e i gomiti sui ginocchi, pensoso.
– Che intendete di fare, insomma?
– La volontà di Dio!
Comare Angela continuava a ravviare la cameretta, e quegli la seguiva con gli occhi.
– E voi, è vero che maestro Paolo il saponaio v'ha piantata?
– S'è messo con Maricchia dello zi' Santo, colei n'ha fatte più della Chitella. A me non me n'importa niente. Sono nella disgrazia, la stella mi corse così! Quando stava con me, però, egli sembrava un signore con camicie di bucato; e non gli mancava un punto, nè un bottone. M'ero lasciata lusingare da quel pendaglio di forca....
– È vero! È vero!
– Meritava che io facessi come Maricchia che se lo spolpa vivo vivo. Se lo vedeste! Non si riconosce. L'altro giorno, incontratolo nel piano di San Pietro, gli schiaffai sul muso: – Ben ti stia!
Lo Storto ascoltava, nicchiando a bassa voce per quel dolore alla schiena che lo portava alla sepoltura.
Comare Angela, intanto, seduta presso la finestra, faceva la calza con mani che andavano leste come il vento.
Don Domenico, sul tardi, fumando tanto di pipa, l'aspettava dentro il portone; e appena la vedeva comparire, le andava incontro.
– Se tu fai questo miracolo!
– Mi par difficile. È più duro del marmo, – ella rispondeva.
La signora scendeva fino a metà di scala per sentire qualche buona notizia. A comare Angela non premeva affatto recare presto buone notizie. Tutti i giorni se ne tornava a casa ora coll'orcioletto ripieno d'olio, ora con un po' di farina per farsi un piatto di lasagne, ora con quattro manate di fave o una bottiglia di vino; ed era una cuccagna, assai meglio di quando ella aveva con sè quel forca del saponaio. Don Domenico le prometteva anche una mantellina di panno fino:
– Ma prima devi fare il miracolo!
 
***
 
Tanto fiore di carità, da comare Angela, lo Storto non se lo aspettava davvero.
– Se questa volta debbo andarmene al Camposanto, a ingrassare i sedani dei Padri Cappuccini, faccio testamento, e lascio la casa a voi, comare Angela, ma con la scomunica di non rivenderla a colui dagli occhi uno a Cristo e l'altro a Maria. Già, se muoio senza testamento, se la prende il corbaccio del re, che non c'entra.
– Vendetela e godetene voi – gli rispose comare Angela, una volta che egli tornò a ripeterle la storia del testamento. – Io ci ho la mia e mi basta; vi è posto anche per altri.
– Allora... – disse Neli.
Ma non continuò, e si mise a ridere, impacciato, guardandosi le mani di cera gialla che parevano mani di morto, quantunque ora stesse assai meglio e andasse senza bastone a sedersi al sole, là di faccia.
– Allora che cosa?
Egli cambiava discorso:
– Ora che sto meglio, qui non ci verrete più, comare Angela!
– Non occorre.
L'altro rimase zitto. Rimuginava le parole di comare Angela, che erano Santo Evangelo.
Poteva morire di stenti, come un cane, e nessuno se ne sarebbe accorto! Finchè era stato giovane, non ci avea badato. Dalla sua mamma, colei che gli aveva dato il latte, fino a comare Angela, nessuna donna poteva vantarsi d'aver messo un piede in casa di lui. Quel po' di veleno se lo era sempre cucinato da sè. Rattoppare i vestiti, spazzare le stanze, lavare la biancheria... aveva fatto ogni cosa da sè, meglio d'una donna.
Ma ora questa malattia gli aveva rotto le ossa; si sentiva rifinito...
– Allora che cosa? – tornò a domandare comare Angela dopo un pezzetto.
– Giacchè dite che in casa vostra c'è posto anche per gli altri...
– Oh, no, no! Dio me ne liberi.
Comare Angela si faceva il segno della santa croce:
– No. Non voglio ricominciare. Fareste come quell'altro.... No, no! Io, io soltanto, so quante lacrime mi è costato quell'infamaccio! Sono così stupida che se prendo affezione a uno...
Egli s'era rialzato dal sasso dove stava a sedere al sole e le si era fatto accosto, presso l'uscio; il cuore gli batteva forte. Era la prima volta che parlava di quelle cose con una donna, e si stupiva in quel momento, pensando che non gliene fosse mancato il coraggio.
– Fareste anche voi come maestro Paolo il saponaio – ripeteva comare Angela a testa bassa, dondolandosi
Fu con questo tradimento che don Domenico ebbe la casa dello Storto e comare Angela del saponaio si guadagnò la mantellina di panno fino.
– Non l'ho fatto per la mantellina – ella disse a don Domenico, – ma per affezione alla sua famiglia. – Il maggior sacrificio è vedermi dinanzi quello sgorbio giallo che mi fa rivoltare lo stomaco.
– Zitta! – rispose don Domenico ridendo; – le sessant'onze della casa te le mangerai tu, fino all'ultimo grano. Buon prò ti facciano!
 
***
 
– Ora che lo Storto sta con gli angeli del paradiso...
I macellai, i bottegai e gli sfaccendati di Piazza del Mercato, seduti in crocchio su gli scalini del Collegio, si divertivano a canzonarlo:
– Ora che lo Storto sta con gli angeli del paradiso, non guarda più in viso gli amici. È vero, Storto?
– Lì vi prudono le corna! – egli rispondeva gravemente.
E mentre bandiva le gabelle, o le tinche del Beviere, o i carciofi dell'Aria del Conte, aggiungevano:
– Senti che voce, lo Storto! Voce angelica davvero!
– Lì vi prudono le corna!
Però, un giorno, le corna se le sentì prudere lui; maestro Paolo il saponaio era tornato al posto antico, ed egli fu costretto ad andare a rannicchiarsi, coi suoi quattro cenci, nel tugurio che don Domenico dovea lasciargli abitare, giusta il contratto, fino alla morte.
– Ben mi sta! Chi dà retta alle donne, s'impicca con le proprie, mani.
Non disse altro.
E continuò la solita vita, fino a che una mattina non vide i manovali sul tetto della sua casa; levavano i tegoli, per poi buttarla giù.
Rimase; quasi gli avessero scoperchiato il cuore. E dimenticò di andare in Piazza del Mercato, e stette tutta la giornata a guardare. Ogni colpo di piccone se lo sentiva rintronare nel cervello; a ogni sasso che volava via, sentiva strapparsi un brandello di visceri, senza poter versare una stilla di pianto, quantunque avesse gli occhi gonfi di lacrime e le pupille appannate.
Dimenticò anche di mangiare; e il giorno dopo, quando i manovali buttaron giù le imposte della finestra infracidite dall'umido e rose dai tarli, gli parve di sentirsi afferrare pe' panni dal becchino e buttar giù nel carnaio dei Cappuccini; quel tonfo su le macerie gli sembrò proprio il suo.
La gente, vedendolo guardare con tanto d'occhi spalancati lo canzonava:
– Lo Storto si fabbrica il palazzo!
Ma egli non rispondeva, e continuava a fissare quella distruzione, quell'incredibile sacrilegio, sotto la pioggia fina e fredda che cadeva lentamente.
 
***
 
La mattina dopo, trovàtolo morto sullo sterro, nell'angolo dove una volta era il suo letto, alla vista di quel cadavere rattrappito, inzuppato d'acqua e intriso di mota, ma con viso di persona tranquillamente addormentata, i manovali ebbero paura.
– Il destino lo chiamava qui – sentenziò il capomastro.
E parve si avverasse quel che lui, poveretto soleva dire:
– Da queste quattro mura uscirò soltanto coi piedi avanti, quando vorrà il Signore!

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Fonte: Luigi Capuana - La nostra gente

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(Michel Houellebecq)
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