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Domenico Tempio, ovvero un Illuminista in Sicilia Empty Domenico Tempio, ovvero un Illuminista in Sicilia

Sab 10 Dic 2022 - 18:20

Domenico Tempio



(ovvero un Illuminista in Sicilia)



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Domenico Tempio fu un poeta satirico di forte tempra morale, tra i più importanti tra quelli dialettali siciliani, che si dilettò a comporre versi licenziosi, la maggior parte data alla stampa indipendentemente dalla sua volontà (circolavano clandestinamente, tanti attribuitigli arbitrariamente, come in genere accade per la pornografia). Fu un poeta d’ingegno multiforme, con più anime tra di loro non contraddittorie. Da un lato, fu il poeta che cantò con spregiudicata libertà il sesso e i suoi desideri, dall’altro il poeta che denunciò le ingiustizie sociali, la povertà, i soprusi dei prepotenti. In una epigrafe a lui dedicata, questa sua duplice ispirazione è sinteticamente e felicemente espressa: «Lubrici amor cantò con lingua oscena / E temi gravi con feconda vena».

uno dei tomi in cui sono stati raccolti i lavori di Domenico Tempio



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Nella biografia di Domenico, detto Micio, Tempio l’incertezza se non prevale, s’insinua su diversi punti non secondari. Se la città che lo ha generato è di sicuro Catania, altrettanto sicura non può dirsi la data di nascita: secondo alcune fonti il 21 agosto del 1750, secondo altre – più attendibili – il 22 agosto dello stesso anno, secondo altre ancora il 22 agosto del 1751. I genitori furono Giuseppe Tempio, un mercante di legna, e Apollonia (o Rosaria?) Arcidiacono. Pare che Micio sia stato il terzo di sette figli. Fu instradato presto al sacerdozio, ma con risultati fallimentari. Lo spirito libero e anticonformista del giovane Tempio, la sua natura schietta, ligia al rigore morale ma non ai moralismi e aliena ai falsi perbenismi e all’ipocrisia, mal tollerava le untuose convenzioni di ambienti inclini alla doppiezza farisaica e ai formalismi tartufeschi. Quegli ambienti, anzi, sollecitarono l’anima ribelle di Micio e ne ispirarono la vena poetica polemica e beffarda.

il busto di Domenico Tempio collocato all'interno della Villa Bellini di Catania



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Letto e apprezzato in vita, malgrado ridotto in condizioni di miseria materiale, per tutto l’Ottocento Tempio fu dimenticato e considerato un poeta pornografico non degno di considerazione letteraria, a causa della critica d’impianto desanctisiano che lo liquida come “poeta osceno” ponendolo di fatto nel dimenticatoio, mentre Tempio, in sintonia con l’illuminismo europeo, illustra la sessualità senza sensi di colpa e lontano da ogni estetica ipocrita. Nell’opera di Tempio il corpo è finalmente proprietà di chi lo detiene liberandosi dalla morale annichilente. La sua poesia parla dell’ingiustizia, del sopruso, del potere, del denaro e dell’impari lotta fra il povero e il ricco perché il povero è un vaso (una “quartàra”) e il ricco una pietra che infine spacca il vaso. Sono le forze spontanee della natura, fisiche e morali, che danno sostanza alla sua poesia. Non un’idea “pornografica” quindi risulta sottesa alle sue parole, ma la condanna a tutto ciò che turba l’ordine naturale e contro le mostruose forzature che ledono l’armonia di ogni cosa creata.

una recente edizione delle sue poesie erotiche



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Solo nel secondo dopoguerra, la poesia di Tempio cominciò a essere rivalutata e apprezzata. In particolare è La Carestia l’opera che venne riconosciuta, e continua a essere riconosciuta, tra quelle di Tempio, di maggior pregio estetico. Pubblicato postumo nel 1848 a cura di Vincenzo Percolla, è un poemetto in venti canti composti da quartine in settenari, che ha per tema la carestia e i tumulti sociali che si verificarono a Catania tra il 1797 e il 1798. È un’opera che supera la stagione dell’Arcadia, cui pure si colloca pur con le sue impronte singolari Domenico Tempio, per precorrere la generazione verista. In tal senso, assai significativi si rivelano i suoi versi d’apertura, di taglio programmatico: «Cantanu l’armi o càntanu / la so’ amurusa stizza / alcuni, o l’occhi nìuri / di Nici, e sua biddizza. / Iu cantu la miseria, / ed iu pri st’autru versu / mi sentu d’esser utili, / si nun è tempu persu». La sua cifra stilistica di poeta civile – ché tale può definirsi il Tempio de La Carestia – si manifesta soprattutto nella satira, per esempio in quella contro la presunta purezza della nobiltà. Così Tempio si scaglia contro la Sciancata, una donna che ostenta origini aristocratiche: «Chidda di sangu nobili / Secunnu li so carti / N’aveva chiù d’un rotulu / vicinu a cincu quarti. / Li nanni soi tutt’eranu / Chi illustri, chi famusi, / (E forsi si po’ cridiri, / Pirch’eranu tignusi)».

un'illustrazione de La Carestia



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Il Tempio poeta erotico è stato il poeta più infamato e infamante della nostra Sicilia. Ingiustamente. Anche se a volte le sue rappresentazioni carnali tracimano nella scurrilità o si manifestano con meccanicità ossessiva – tipica della pornografia –, è bene ricordare che tanti componimenti sono mere esercitazioni dilettevoli destinate a un pubblico privo di pretese, e che l’autore non aveva intenzione di pubblicarle. Peraltro, molte di queste – le più banali – hanno una paternità incerta: è assai probabile che siano frutto di mediocri imitatori del Tempio. Si aggiunga che il ‘700 è stato definito il siécle de plaisir: il secolo in cui l’erotismo è accolto in letteratura come anelito di libertà, soprattutto in Francia.

il poeta trapanese Giuseppe Marco Calvino



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In realtà Tempio era un vero e proprio poeta della ragione, che scriveva del quotidiano tanto quanto del suo pensiero illuminato. La poesia erotica era per lui soprattutto un divertissement, oltre che un esercizio di scrittura; purtroppo, divenne l’unica che lo rese popolare. Ad accrescere la sua fama di poeta licenzioso, inoltre, la censura che colpì i suoi componimenti tra Ottocento e Novecento. Tempio divenne un artista dimenticato o ricordato soltanto per gli aspetti più scandalistici della sua opera.

il poeta palermitano Ignazio Scimonelli



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In Sicilia, Tempio non è stato l’unico poeta erotico: insieme a lui, si divertivano con rime licenziose il trapanese Giuseppe Marco Calvino, il palermitano Ignazio Scimonelli e lo stesso abate Meli – che generalmente viene contrapposto, per spirito e sensibilità più rarefatti, al “prosaico” e “sanguigno” poeta catanese, i cui versi “osceni” ebbero minore diffusione. Né mancarono, in questo periodo nel resto della penisola, esempi di poeti erotici: un nome su tutti, il milanese Carlo Porta. I migliori versi erotici di Micio Tempio, lungi dal rivelarsi osceni, sprigionano gioia di vivere, divertimento dei sensi, avversione agli ipocriti conformismi e testimoniano un contesto sociale che si scrolla d’addosso pregiudizi e inibizioni. Sotto il profilo estetico, poi, la qualità è palesata da dotti espedienti, quali l’utilizzo, in scherzevole chiave poetica, di latinismi e frasari giuridici.

altro poeta palermitano, l'Abate Giovanni Meli



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Il Tempio poeta civile, quello soprattutto de La Carestia, denuncia le ingiustizie e l’impari lotta tra i ricchi e i poveri: il povero è un vaso (una quartara), il ricco una pietra, e la pietra è destinata, per le leggi di natura, a spaccare il vaso. Tempio si schiera dalla parte dei poveri, e ne assume la difesa con la lama tagliente della sua satira.
La sua, in realtà, è una una vera e propria critica dei costumi dell’epoca, una condanna a trecentosessanta gradi di una società ipocrita e falsa; punta, piuttosto, al rinnovamento morale e al riscatto degli uomini dalle loro diverse condizioni di miseria. Così, in Mbrugghereidi racconta delle malefatte di un prete disonesto, ne La Maldicenza sconfitta della libertà del poeta e della poesia, e in Lu veru piaciri si batte contro ogni forma di falsità.

il poeta milanese Carlo Porta



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Il suo è comportamento di massima dignità nella miseria e nelle sventure. Il suo tempo è quello di una decadenza morale infinita. Clero e baronie affogano nella corruzione e nel sesso. Lui, uomo d’immensa cultura classica, diventa osservatore di un’epoca e descrive con crudo realismo i tempi che vive. Proprio quelle poesie “porno” sono la denuncia di quanto accade in quella società dove i figli cadetti dei feudatari per sopravvivere, senza vocazione alcuna, diventavano preti, abati e cardinali mentre le nobilinubili o nobili-“peccatrici” finiscono nei conventi dove, come storicamente dimostrato, avvenivano mostruosità sessuali e squallide turpitudini. Questo mondo è visto con ironia e capacità letteraria ineguagliabili anche se qualche volta indulge, sempre da grande poeta, a compiacimenti popolari che fanno parte della cultura del tempo e dei rapporti avuti con la gente che tanto amava. La sua fede cattolica è confermata nel sonetto “Pilatu” Il commento può sembrare superfluo, ma secondo l’ortodossia cattolica del tempo Pilato e Giuda per un verso o per l’altro erano responsabili della morte di Gesù; responsabilità inoltre attribuita fino a qualche decennio fa anche agli ebrei che per secoli sono stati perseguitati fino al silenzio della Chiesa sul recente olocausto. Per quel che riguarda il “Pietro cornuto” si capisce il tono tra il serio e il faceto, ancora in uso nel linguaggio dialettale quando senza voglia di offendere si dà del “curnutazzu” a un amico in tono semiserio.

Pilatu / Pilato
Malidittu ddu stìcchiu arripuddutu / Maledetta quella vagina agghindata
d’unni nisciu dda bèstia di Pilatu; / da dove è uscita quella bestia di Pilato;
chidd’omu indignu,mindaci ed astutu, / quell’uomo indegno, bugiardo e astuto,
chi cunnanau un Cristu addisiatu. / che condannò un Cristo benvoluto.
Beni ti stetti, o Apòstulu futtutu, / Ben ti stette, Apostolo fottuto,
tu ca muristi a un àì’vulu affurcatu; / tu che sei morto impiccato a un albero;
e tu ‘un chiànciri chiù, Petru cumnutu, / e tu non piangere più, Pietro cornuto,
pria di nigarlu cci avissi pisatu. / prima di negarlo avresti dovuto pensarci.
E vui autri Ebrei, facci di cazzu, / E voialtri Ebrei, facce di cazzo,
chi vi criditi chi lu Patri Eternnu / cosa credete che il Padre Eterno
fussi minchiuni o puramenti un pazzu? / sia un minchione o puramente un pazzo?
Ci ammazzastivu un figghiu a sucazzuni; / Gli avete ucciso un figlio torturandolo;
‘mmenzu a vuiatri cci lassau lu strazzu; / in mezzo a voi ha lasciato lo strazio
e nni vuliti n’àutru? Un minchiùni! / e ne volete un altro? Un cazzone!





(dal web)
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