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Il Cinema e la Sicilia, un connubio inscindibile - 3^ parte. Divorzio all'Italiana (ovvero il Diritto in chiave Siciliana) Empty Il Cinema e la Sicilia, un connubio inscindibile - 3^ parte. Divorzio all'Italiana (ovvero il Diritto in chiave Siciliana)

Sab 26 Nov 2022 - 18:21

Il Cinema e la Sicilia, un connubio inscindibile - 3^ parte. Divorzio all'Italiana (ovvero il Diritto in chiave Siciliana) Lg0bfmE



Dall’articolo 587 del codice penale (abrogato il 5 agosto 1981): Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale con il coniuge, con la figlia o con la sorella.

Il divorzio, nel 1961, non è ancora previsto dal codice. Quell’anno, in Sicilia, si contano oltre mille delitti d’onore. La pena per chi uccide la moglie (assai più raramente si uccide il marito) va dai tre ai sette anni di carcere; per chi accoppa invece un “cristiano qualunque” la condanna va dai venti al fine pena mai.
Il barone Ferdinando Cefalù (detto Fefè), forte di questa legge, non si fa problemi ad architettare un falso adulterio della moglie – Rosalia, racchia e con un sopracciglio convergente alla Frida Kahlo, al suo fianco da oltre un decennio – per liberarsi di lei e finalmente sposare la cugina Angela – bella e giovane – di cui si è follemente innamorato. Sono questi i tre personaggi chiave, ma avanti a tutti è Fefè, interpretato da Marcello Mastroianni, della celeberrima commedia di Pietro Germi, Divorzio all’italiana.
Sciascia in Occhio di capra scriveva:
Non c’è paese siciliano dove non si dica (molto meno oggi) che nei paesi vicini tutte o quasi tutte le donne abbiano l’abitudine di tradire i loro mariti e che tutti o quasi i mariti subiscano i tradimenti delle mogli senza far tragedia, tranquillamente. “Cornuti pacifici”, cioè cornuti che ragionano sulla propria disgrazia o addirittura ne approfittano.
Fefè, invece, premedita, architetta, manipola.
Il film è girato tra Ragusa Ibla, Ispica e Rosolini, paesini dei Monti Iblei, ed è un esilarante ritratto comico-grottesco della Sicilia dell’epoca: arretrata, maschilista, ancora preindustriale nel contesto e nei costumi.
Indimenticabili il boogie-woogie ballato da soli uomini (le mogli sono a casa dietro le finestre chiuse, nella penombra, come richiedono le norme di decoro) e il coro in risposta alla domanda di un oratore del Partito comunista che si spinge ad “affrontare il secolare problema dell’emancipazione della donna” anche nel profondo Sud.
«Quale giudizio sereno ed obiettivo merita la signora Cefalù?».
La risposta è: «Bottana!».
In paese – la fittizia Agromonte – al cinema danno La dolce vita, e la comunità anche questa volta è uniformata nel giudizio negativo nei confronti di una pellicola che mostra donne troppo libertine, “di facili costumi”.
Germi, seppur con il sorriso, vuole condannare la concezione maschilista del rapporto di coppia di allora, il delitto d’onore, l’assurdità della legge italiana e pure il ritardo cognitivo del Mezzogiorno sulle idee progressiste – e in parte il progresso tecnologico – che senza strumenti non sa decifrare, e dunque l’intellighenzia politica che non si premura di rendere il messaggio più chiaro. Fefè rappresenta il passato in un presente immobile: aristocratico decaduto si aggira per casa agghindato di pigiamini e retine per capelli a tenere fermo il capello impomatato, immerso in ridicoli sogni (la moglie lanciata su un razzo sulla luna, trasformata in sapone e persino inghiottita dalle sabbie mobili…), senza uno scopo se non il romantico amore per la cugina. Il baroncino è caratterizzato da un lieve tic, a segnalarne l’insofferenza per la sua condizione, ma prima di tutto per i retaggi culturali del suo mondo.
Fefè, a riprova del giudizio negativo di Germi, non riuscirà ad attuare il suo piano secondo copione. Non è “vincitore”. Il marito non coglie sul fatto la moglie – ormai fuggita con l’amante – e non potrà dunque avvalersi delle attenuanti previste dal codice penale. Si rintana in casa, si finge malato, decide dunque di attirarsi il disprezzo della gente. Cornuto sulla bocca di tutti, alla luce accecante del paese (in contrasto con il privato delle case ombrose). Finalmente disonorato, può ritentare: l’onta pubblica sarà la sua attenuante. Uccide Rosalia, e l’amante di Rosalia è, a sua volta, ucciso dalla moglie legittima. Qualche anno di carcere e Fefè può allora sposare Angela, angelica di nome e d’aspetto – è una bellissima Stefania Sandrelli appena quindicenne – ma non nei fatti. In viaggio di nozze è subito “piedino” con il marinaio, interpretato da un giovane universitario che diventerà un famoso giornalista siciliano, Giovanni Pluchino.
Vincitore dell’Oscar come miglior sceneggiatura, Divorzio all’italiana è tra i più indimenticabili affreschi di una Sicilia tanto paradossale quanto realmente esistita. Fa il paio con Sedotta e abbandonata, successivo film di Germi (1964) dove questa volta la protagonista è donna. Agnese Ascalone (ancora una volta Stefania Sandrelli) è romantica, come Fefè, ma antitetica a lui in quanto in balìa degli eventi, vittima, e non macchinosa artefice di articolate messe in scena.
Il delitto d’onore sarà abolito solo nel 1981, il ritardo legislativo sulla legge per il divorzio sanato nel 1970. Nel frattempo ci siamo potuti consolare con la condanna al cubo del barone Cefalù: carcerato (anche se solo per poco) e doppiamente cornuto.


(dal web)



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