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La leggenda della strega di Salto La Vecchia Empty La leggenda della strega di Salto La Vecchia

Mer 22 Feb 2023 - 15:22
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C’era una volta a Pantiddraria tanto, ma tanto tempo fa, così lontano che si perde ormai nella notte dei tempi, una magara ovvero una fattucchiera che abitava in un vecchio e nero dammuso, appollaiato su un costone a strapiombo tra Nikà e Balata dei Turchi.
Il nome di quella magara oggi nessuno lo ricorda più, anche se fino a pochi decenni orsono qualche vecchia popolana di Scauri e di Khamma e che sapeva le parole antiche, quelle magiche di una volta, ne conosceva il nome e lo sussurrava sottovoce con timore reverenziale.
e di malefici per chi avesse solo osato ascoltarlo.
Si racconta, relata refero, che nel tempo di cui parliamo la magara avesse più di qualche centinaia anni d’età e il suo volto fosse ormai una fitta ragnatela di rughe, orribile a guardarsi.
Eppure non era stata sempre così. Un tempo i suoi occhi verdi e i suoi capelli neri, lucenti e metallici come l’ala di un corvo, e il corpo sinuoso e splendido, che le leggeri vesti lasciavano intravedere prepotente e con i seni irti di desiderio, avevano ammaliato e fatto impazzire d’amore più di un picciotto dell’isola.
Ma inutilmente, perché la giovane e bella magara non si curava minimamente di loro.


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Ella aveva il suo grande e unico amore, un principe turchesco di nome Alì Soliman, che aveva incontrato un giorno a Balata dei Turchi. Quel giorno Alì era sbarcato a Balata con i suoi saraceni daun vascello corsaro e andava a saccheggiare la città murata di Pantelleria. Gli sguardi s’incrociarono e fu subito amore travolgente a prima vista. Un amore che poi continuò ad ardere senza mai spegnersi. Anzi che si ravvivava sempre più nei teneri convegni amorosi, che si consumavano al limitare del frangersi delle onde di un mare sempre complice.


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Ma un brutto giorno Alì Soliman durante una delle sue incursioni corsare sull’isola, tradito per soldi da un suo giannizzero, fu tratto in un tranello e catturato dalle guardie del castello. Com’era uso in quei tempi crudeli, Alì fu inchiodato presso la porta delle mura cittadine (dove ora sorge l’ex hotel Miriam) e lasciato morire di fame e di sete.
A nulla valsero le preghiere prima, le maledizioni poi della giovane e bella magara. Da quel giorno la donna cominciò a covare un odio implacabile contro tutti gli abitanti dell’isola e si diede, anima e corpo, alla magia nera.
Si racconta che avesse perfino sottoscritto un patto di sangue col diavolo in persona per avere in suo dominio diretto gli elementi naturali. Passava così il suo tempo flagellando l’isola con lunghi periodi di siccità, con venti impetuosi che trasportavano l’impalpabile e sottile sabbia africana e che tutto disseccava, con tremende mareggiate che spaccavano il molo e mandavano a picco più di un veliero.
Ma ciò che scatenava oltremodo l’ira della strega era allorché veniva a conoscenza dello sbocciare di un nuovo amore tra i giovani dell’isola.
Particolarmente presi di mira erano poi i giovani innamorati, che risiedevano nei pressi della sua contrada. Più di un matrimonio era andato in fumo per le sue male arti e non poche ragazze s’erano fatte di conseguenza monache di casa. Contro questo vero e proprio flagello di Dio s’erano più volte mosse le autorità.
Lo stesso governatore aveva ordinato parecchie volte alle guardie del castello di arrestare la strega e condurla alla sua presenza alfine di essere giudicata e ricevere il meritato castigo.
Ma malgrado gli sforzi, gli agguati, la magara non si poteva mai pigghiare. Si raccontava, da chi aveva partecipato a quei tentativi di cattura, che quando si vedeva circondata ella si trasformasse in men che non si dica in un sicarro (falco o gheppio) e così dalle rocce s’involasse rapidamente verso il mare.


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Passavano gli anni e di quella malefica donna non si vedeva mai la fine.
Venne però il tempo in cui la tenera Narduzza di Nikà s’invaghì perdutamente (ricambiata) del giovane e forte Turi della contrada di Khamma.
Quell’amore era bello e colorato come i fiori dei campi in primavera. Ogni giorno Turi per recarsi dalla sua bella doveva passare per forza nei pressi del dammuso della magara e quest’ultima, appena saputo di quel nuovo amore, si apparecchiò subito a renderlo infelice con le sue arti magiche.


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Per l’occasione la strega escogitò una nuova diavoleria, più insidiosa delle precedenti. Con degli unguenti fatti di misteriose erbe del monte Gibele, riuscì a riprendere le fattezze di un tempo, di quando aveva gli occhi di un verde brillante e il corpo sinuoso e invitante.
E così, nuda, si era fatta vedere da Turi e quell’immagine s’era impressionata, come un negativo, negli occhi del giovane, così che quando aveva abbracciato la sua Narduzza quell’immagine sensuale e peccaminosa s’era interposta tra i due innamorati come un’ombra nera e cupa. Nei successivi incontri Narduzza s’accorse che Turi era diventato più distante e freddo e ne diede, giustamente (amore non inganna), la colpa a qualche maleficio della fattucchiera.
Una notte di luna piena la ragazza si avvicinò al dammuso della magara e cominciò a spiarne le mosse. Vide la vecchia uscire e guardarsi con circospezione tutto intorno, poi la vide avviarsi per un sentiero impervio e fermarsi davanti a una larga roccia spianata con un incavo al centro, che conteneva dell’acqua. La strega si lavò il viso in quell’acqua ed ecco avvenire qualcosa di stupefacente.
Ella si trasformò in un attimo in un gheppio, che con subitaneo volosi lanciò dall’alto della scogliera e prese a roteare, con rapidi voli, sulle mugghianti onde del mare in tempesta. Era il suo modo di divertirsi con gli elementi della natura.
Intanto Narduzza si era avvicinata alla roccia con l’incavo eassaggiò una goccia di quell’acqua: era amara e poteva benissimo trattarsi di acqua di mare, forse mescolata con il succo di erbe amare del monte Gibele.
Nella mente della ragazza cominciò a balenare un piano per liberarsi una volta per sempre di quella megera. Doveva sostituire quella misteriosa acqua con acqua di cisterna. E così fece una notte di luna piena.
La strega uscì dal dammuso e si portò alla roccia con l’incavo. Silavò per bene la faccia e subito si slanciò dall’alto della scogliera. Ma la magica metamorfosi non avvenne e la vecchia cadde, sfracellandosi, sulle rocce aguzze sottostanti.


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Da quel giorno della fattucchiera non si sentì più parlare e per decenni delle ossa calcinate biancheggiarono laggiù sulla scogliera. E quel luogo fu chiamato da tutti Salto La Vecchia e i paesani che vi passavano non potevano fare a meno di segnarsi con la croce.
E di Narduzza e Turi?
Il loro amore, come accade fortunatamente in tutte le favole, trionfò e i due alla fine celebrarono un bel matrimonio, a cui furono invitati tutti gli isolani.
E i doni furono molti perché tutti erano grati alla ragazza per averli liberati da quel flagello.
Qualcuno ai giorni nostri, percorrendo un impervio e sperduto sentiero presso la scogliera di Salto La Vecchia, afferma di aver veduto una roccia con un incavo al centro contenente dell’acqua. Vicino una bianca e trasparente forma di donna, di cui si scorgevano solo gli occhi verdi.

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Orazio Ferrara

Fonte: ilgiornaledipantelleria.it

Immagini: web

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(Michel Houellebecq)
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