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Racconti siciliani: Luigi Capuana - La gran quistione Empty Racconti siciliani: Luigi Capuana - La gran quistione

Mar 20 Feb 2024 - 18:10
Racconti siciliani: Luigi Capuana - La gran quistione Dickse10




In casa di don Mario Pocasemenza si viveva ancora all'antica. Egli era più del Re; ordinava e tutti dovevano obbedire, anche la moglie; anzi la moglie, sopratutti, per dare il buon esempio alle due figlie e alla serva.
Dal giorno che lo avevano licenziato da segretario del Municipio – e il pretesto, diceva lui, era stato che egli si trovava come un pulcino tra la stoppa con la nuova Legge comunale, coi regolamenti, i decreti e con le circolari che la commentavano – don Mario andava fuori raramente, nonostante che la famiglia lo esortasse ogni giorno a far quattro passi.
– Per sgranchirvi le gambe – ripeteva donna Rosa – ora che più non dovete andare e venire dal Municipio!
– Poichè i nostri nemici hanno voluto così – soggiungeva ogni volta la figlia maggiore.
– E per non far vedere che facciamo il lutto del segretariato!
Alle sdegnose parole delle sue figlie, don Mario emetteva un profondo sospiro quasi si sentisse inasprire la piaga non rimarginata in fondo al cuore.
A vederlo però, non si sarebbe detto ch'egli avesse risentito molto dispiacere del posto perduto dopo tanti anni di servizio. Era ingrassato il doppio. Pareva che le gambette stentassero a sostenere quel pancione arrotondatosi in modo straordinario; e sotto il mento, invece di una, ora gli pendevano due fratesche pappagorgie, che ingrandivano la faccia rasata, con le venuzze a fior di pelle formanti su le gote un fine reticolato sanguigno.
Ma bisognava sentirlo parlare nella farmacia del Gobbo dove si riuniva l'opposizione, come si chiamavano i sette od otto che, dalla mattina alla sera, sbraitavano contro il Sindaco, contro gli Assessori, contro quei pecoroni di Consiglieri comunali, abituali ormai a chinare la testa davanti la prepotenza del Sindaco e degli Assessori.
Non sembrava più lui. Agitava le braccia, le gambe, faceva far saltarelli al pancione, quasi per cavar fuori certe vibrazioni di voce che avrebbero voluto essere saette, da incenerire i suoi avversari, coloro che lo avevano cacciato dal posto per mettervi un ragazzo impertinente e superbo il quale rispondeva a tutti: «Questo non si può fare per l'articolo tale, il comma tale, per la circolare A, per il regolamento B!»
– Come se non si sapesse che quando fa comodo ai padroni non c'è più leggi, nè regolamenti, nè circolari, ma l'arbitrio, l'ingiustizia, il maligno capriccio, il più spudorato favoritismo!... Anche a me, certe volte, toccava... Si dice: Lega l'asino dove vuole il padrone. Ma io, zitto, zitto, trovavo poi modo... di legar l'asino dove volevo, dove dovevo! E – questo non si può! Questo si può – non lo dicevo alla povera gente, ma al Sindaco, agli Assessori prepotenti più di lui. E allora, approfittando d'una mia breve assenza dall'ufficio, essi facevano firmar le carte a quel bestione del vice-segretario... ed io trovavo il pasticcio bell'e fatto. Protestavo – Ma, signor Sindaco! Ma signor Sindaco! Ma signor Assessore! – Mi ridevano in faccia: – Va bene! Un'altra volta si farà come dite voi. La vostra responsabilità è al coperto. E tira oggi, tira domani...
– La corda si è spezzata – rispose quel giorno il malizioso farmacista che non era gobbo per niente – avete sbattuto il seder per terra, e lo sentite ancora indolenzito! Ormai non dovreste guastarvi il sangue. Abbiamo quel che meritiamo. A casa vostra però il sindaco, l'assessore siete voi.... Perchè non le maritiamo quelle ragazze? È tempo, caro don Mario! Le ragazze sono fatte per prendere marito.
Anche allora don Mario s'inviperiva contro il gobbo che, di tanto in tanto, cavava fuori il discorso delle figlie da maritare quasi dovesse pensarci lui o volesse fare il mezzano e beccarsi la provvigione! Non rispondeva, ma gonfiava, gonfiava le gote, mentre l'altro, pur manipolando cartine, o impastando intrugli da ridurre in pillole, insisteva:
– Le ragazze sono fatte per prender marito!
All'ultimo don Mario esplodeva:
– Maritate le vostre, giacchè avete tanta premura!
E i sette o otto dell'opposizione, che invece di frequentare il Casino di convegno, si radunavano nella farmacia, per non trovarsi in contatto con quelli del partito spadroneggiante al potere, scoppiavano in una sonora risata alla rabbiosa risposta di don Mario. Il gobbo, sì, aveva tre figlie, ma bambine, la maggiore delle quali non raggiungeva i sei anni.
Don Mario si accorgeva di essersi lasciato scappar di bocca una sciocchezza, e rideva anche lui.
– O se è vero! Che glien'importa delle mie figliuole? – si rivolgeva agli altri, per scusarsi.
– Parlo pel vostro bene – ripicchiava quegli – Le zittellone sono una gran disgrazia quando rimangono in casa. Donna Peppina ha già trenta anni...
– Ventotto!– correggeva sùbito don Mario.
– Donna Rosalia ne ha venticinque – replicava il gobbo.
– Ventidue! correggeva don Mario.
– E dunque? Che ne farete? Due monache di casa? C'è quel povero don Enrico Mannino che spasima per donna Rosalia. Lo dà a vedere a chi vuole e a chi non vuol saperlo; su e giù per la via, con gli occhi ai balconi di casa vostra, da mattina a sera. Consuma un paio di scarpe la settimana, ed ha fatto abbassare di un palmo il selciato. È un bravo giovane... non più tanto giovane veramente, ma un gran galantuomo, che potrebbe mantenere la moglie come una regina. Ha il fatto suo, meglio di qualche altro.
Don Mario non aveva niente da ridire contro don Enrico Mannino, e gli avrebbe accordato volentieri la mano della figliuola minore. Ma in casa sua, usava all'antica, com'era giusto. Peppina era venuta al mondo prima e doveva maritarsi prima. Rosalia era arrivata due anni dopo e doveva maritarsi dopo. Poteva attendere. Disgraziatamente.... Che colpa ne aveva lui? Disgraziatamente quella figliuola maggiore non era civetta, non sapeva adoprare nessuna di quelle arti che ordinariamente servono ad accalappiare i mariti. Era una donnina di casa, come la mamma. Qualcuno – egli lo aveva saputo – le era ronzato attorno, anni addietro; il fratello del dottor Lacava, il figlio di Monaco, il nipote di P. Benedetto Salerno – ma volevano fare i graziosi, per provare di volersi bene; e lei senz'altro: – Parlate con papà! – quasi la risposta fosse stata un'offesa!
Rosalia... Ah!... non sembrava nata dallo stesso padre e dalla stessa madre. Mentre lui era condannato a servire il pubblico: richieste, certificati, matrimoni, sedute di Giunta e di Consiglio, corrispondenza col Sottoprefetto, lista di leva, senza aver il tempo di grattarsi il capo con un dito – la sua povera donna Rosa non sapeva come sorvegliare la ragazza, sempre affacciata ai balconi di questa o di quella stanza, a civettare con gli studenti tornati dall'Università durante le vacanze, con certi giovanotti senz'arte nè parte che avrebbero voluto beccarsi la dote della ragazza per rimpannucciarsi bene....
La moglie non gli diceva niente di quel che avveniva nella giornata, per non fargli fare la bocca amara, durante o dopo il desinare. Egli, un po' indovinava dalle velate botte e risposte frizzanti delle due sorelle a proposito di piccoli incidenti di cose di casa, ma preferiva di star zitto perchè quando aveva detto: – Dev'essere così! – Voglio così – la sentenza era data, e nessuno doveva rifiatare.
Infatti, allorchè il Mannino mandò il canonico Bellinello per chiedergli la mano di Rosalia, don Mario rispose:
– Grazie a voi, signor canonico, per l'incomodo che vi siete preso; ma dite al signor Mannino che se ne potrà riparlare dopo che avrò maritato la maggiore. In casa mia usa così.
– Sarà presto? – domandò il canonico.
– Quando Dio vorrà. Io non metto all'incanto le figlie.
Erano accadute scene violente quel giorno tra moglie e marito, tra sorella e sorella. Donna Rosa diceva:
– Ma giacchè Dio manda la provvidenza a questa figliuola!
– E dobbiamo dar l'affronto all'altra?
– Ma che affronto! Domani...
– Appunto questo non deve avvenire... Si dice: Chi primo arriva, primo alloggia... Peppina è arrivata la prima...
– E l'alloggio dov'è?
Don Mario non volle convenire che il proverbio gli dava torto, e rispose alla moglie:
– Fareste bene a star zitta quando parlo io!
Ma quella volta, cosa insolita, donna Rosa non tacque. Il buon senso materno gli diè coraggio di replicare, replicare, non ostante che don Mario urlasse...
– ...quando parlo io!
E di là, nella sala da pranzo, leticavano le due sorelle:
– Tutto questo per cagion tua!
– Per cagion tua, dovresti dire! – replicava Rosalia.
– Non l'avrai vinta!
– Chi lo sa! Chi lo sa!
– Quando il papà ha deciso una cosa!
– Badate! Badate! Che non ne decida un'altra, io!
– Minaccia, la sfacciata!
– Signorine! Oh, Bella Madre Maria!
– La vecchia serva era accorsa dalla cucina.
– Voi, lavate i piatti, voi! Non vi intromettete nei nostri discorsi! – la sgridò Rosalia.
Eppure ella aveva pazientato due anni, sperando che qualcuno si fosse finalmente deciso a prendere colei che attendeva la manna dal cielo, senza punto scomodarsi di dare un'occhiata, di accordare un sorriso, con tanta mala grazia di modi, con quel viso che pareva ingrugnito contro le persone!
Lo sapeva lei sola quel che le costava di tenersi attaccato il suo Enrico! Letterine, imbasciate; e certe notti, poche parole scambiate dal balcone alla via: – Pazienza! Ancora un po'!... Non è per te! Anzi papà sarebbe contento. – E se quella non troverà mai?... Dobbiamo invecchiare facendo all'amore?
In casa Pocasemenza, la gran quistione era questa: prima la maggiore, poi l'altra! Don Mario non transigeva. Suo nonno aveva fatto così! Suo padre aveva fatto così! Tutte le donne di casa Pocasemenza si erano rassegnate, anche quando qualcuna aveva dovuto rimanere zittellona! E per ciò fu un gran colpo per don Mario la sera che Beppina gli riferì:
– Ha detto: Badate! Che non decida il contrario io!
Voleva investirla con tutta la forza della autorità paterna, ma donna Rosa suggerì:
– Parliamone prima al confessore; l'ammonisca lui; sarà meglio.
– Io dunque valgo meno del confessore? – protestava don Mario.
– Quello può parlare in nome di Dio; è un'altra cosa.
Non ne era ben persuaso, egli che aveva un'altissima idea dell'autorità paterna. Le donne di casa Pocasemenza non si erano mai ribellate ad essa, in nessuna circostanza. Doveva toccare a lui, in questi tristissimi tempi!... Oh! non sapeva darsene pace.
In quei giorni Enrico aveva scritto a Rosalia queste sibilline parole: «Mariterò io tua sorella».
Infatti Rosalia aveva notato una specie di risveglio in quella marmotta, come soleva chiamarla tra sè e sè.
Perchè ora si lisciava i capelli col pettine ogni volta che stava per affacciarsi a un balcone?
Perchè quando veniva la moglie di mastro Rocco il vagliatore, la marmotta si trovava sempre pronta per andare ad aprirle la porta, a rimanere un pezzetto a parlare sottovoce con lei nell'anticamera?
E perchè non mancava mai di riaccompagnarla, di intrattenersi nuovamente a far pissi pissi con quella vecchia, e pareva che non sapesse staccarsene più?
Cominciò a capirne qualche cosa, la mattina in cui don Mario ricevette una insolita visita del Gobbo; visita breve – quantunque egli avesse voluto che fosse presente anche la buona donna Rosa. Si doveva trattare certamente di una richiesta di matrimonio per la sorella, perchè il farmacista, andando via, ripeteva:
– Scusate, scusate!... Ma pensateci bene, caro don Mario!
E don Mario
– Ve l'ho detto: il contadino per Poggio Rosso ce l'ho da un pezzo.
Donna Rosa non diceva niente, visto lo sdegno del marito, che sbuffava:
– Per chi ci ha presi? Un massaio a donna Peppina Pocasemenza! Per chi ci ha presi?
E Rosalia, che aveva avuta, la sera avanti, la letterina di don Enrico Mannino: «Mariterò io tua sorella» sospirò pensando:
– È fallita anche questa! Vogliono dunque che io faccia uno sproposito, per forza?
Lo sproposito invece lo fece sua sorella, la marmotta, due notti dopo, fuggendo con massaio Carmelo Conti, che don Mario aveva sdegnosamente respinto dicendo: Il contadino per Poggio Rosso ce l'ho da un pezzo!
E Massaio Carmelo invece ne aveva tre contadini a servigio per le sue terre della Piana, e possedeva buoi e una bella mandria di pecore, senza parlare dei quattrini che dava in prestito, con ipoteche, a titolati padroni suoi, com'egli li chiamava con ironica umiltà.
Ma don Mario pensava all'onore della famiglia Pocasemenza che quella disgraziata aveva buttato nel fango.
– Datele la vostra benedizione! – venne a pregarlo il canonico Musso.
– Non ne ha bisogno!... E poi, la vera mia figliuola è questa qui, Rosalia, che si mariterà onorevolmente, con persona degna di lei, di noi tutti e sarà tra venti giorni la signora Mannino!
Ah, se don Mario avesse saputo che in quella fuga ci aveva messo lo zampino il prossimo marito della sua Rosalia! Che era stato lui a lusingare, a eccitare l'amor proprio, la vanità di massaio Carmelo, dicendogli:
– E allora saremo cognati!
Don Mario anzi si scusava col genero:
– Capite, in casa nostra si è fatto sempre così: prima la maggiore, poi la minore.
E questo lo consolava un po' di quello ch'egli chiamava il colpo di pazzia della disgraziata!
– Stava per passare la trentina!
– Anche la cinquantina! Una Pocasemenza non è disonorata se rimane zittella!
Donna Rosa piangeva, ancora sbalordita di quel che era accaduto.
– Chi poteva immaginarlo! Lei, che sembrava così buona, così tranquilla!
Rosalia stava per rispondere:
– Le gatte morte, mamma!...
Invece l'abbracciò teneramente:
– Mamma! Mamma! Tutto si accomoderà, vedrai, mamma!
Intanto era felice che la marmotta, senza volerlo, aveva accomodata lei, finalmente!

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(Michel Houellebecq)
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