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I Beati Paoli tra leggenda e realtà Empty I Beati Paoli tra leggenda e realtà

Sab 3 Dic 2022 - 21:26

I Beati Paoli tra leggenda e realtà



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In una terra come la Sicilia dove il sopruso e l’angheria, da parte dei nobili e dei funzionari dello Stato, erano all’ordine del giorno, l’idea di qualcuno che si ergesse a difensore della gente comune era perlomeno allettante.
Quella dei Beati Paoli è una delle più interessanti e misteriose fra tutte le leggende di Sicilia. L’immagine di uomini incappucciati che, nel cuore della notte, si riunivano per organizzare vendette e rappresaglie contro coloro che avevano infranto impunemente la legge, ha profondamente colpito l’immaginario popolare.

una suggestiva rappresentazione dei Beati Paoli



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In una terra come la Sicilia dove il sopruso e l’angheria, da parte dei nobili e dei funzionari dello Stato, erano all’ordine del giorno, l’idea di qualcuno che si ergesse a difensore della gente comune era perlomeno allettante. Ma nel corso di questi secoli, in molti, si sono posti il problema su dove porre il confine tra leggenda e realtà.

Elifas Levi



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Una traccia appare nella “Storia della magia” (1859) di Elifas Levi. Ecco cosa scrive l’occultista francese:
“Carlomagno inviò in Vestfalia, dove il male era maggiore, i suoi agenti devoti incaricati di una missione segreta. Questi agenti attirarono a loro e si legarono col giuramento e la mutua sorveglianza tutti quelli che erano energici tra gli oppressi, tutti quelli che amavano ancora la giustizia, sia tra il popolo, sia tra la nobiltà; scoprirono ai loro adepti i pieni poteri che avevano avuto dall’imperatore e istituirono il tribunale dei franchi-giudici. Era una polizia segreta avente diritto di morte. Il mistero che circondava i giudizi, la rapidità delle esecuzioni, tutto colpì l’immaginazione di questi popoli ancora barbari.

una recente edizione della "Storia della Magia" di Elifas Levi



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La Santa Veeme prese proporzioni gigantesche; si tremava al racconto delle apparizioni di uomini mascherati, delle citazioni inchiodate alle porte dei signori più potenti, dei capi dei briganti trovati morti col terribile pugnale cruciforme sul petto, e con l’estratto del giudizio della Santa Veeme nella striscia attaccata al pugnale. Questo tribunale teneva nelle sue riunioni le forme più fantastiche: il colpevole, citato in qualche crocicchio isolato, vi era preso da un uomo nero che gli bendava gli occhi e lo conduceva in silenzio; era sempre di sera, a un’ora inoltrata, perché le sentenze non si pronunciavano che a mezzanotte. Il delinquente era introdotto in vasti sotterranei; una sola voce l’interrogava; poi gli si toglieva la benda: il sotterraneo s’illuminava e si vedevano i franchi-giudici tutti vestiti di nero e mascherati.”

il tribunale della Santa Veeme



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Poco più di trecento anni dopo appare a Palermo la Setta dei Vendicosi. Nella sua “Indagine sui Beati Paoli” , Francesco Castiglione cita due testimonianze, dell’Anonimo di Monteccasino e dell’Anonimo della Cronaca di Fossa Nova, che parlano della comparsa di questa setta tra il 1185 e il 1186. Castiglione riporta, inoltre, la testimonianza di un altro francese, Jean Levesque de Burigny, che nella sua “Histoire de Sicilie” (1745) scrive: “Nell’anno stesso delle nozze di Costanza (nel 1186, appunto, Costanza d’Altavilla sposò Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa N.d.R.) avvenne il rimarchevole scoprimento d’una nova setta di empia e capricciosa gente, cui davasi il nome di Vendicosi, ovvero Vendicatori. Nei loro segreti e notturni congressi ogni scelleratezza rende anzi lecita – sotto il colore di riparare gli altrui torti”.

il matrimonio di Costanza d'Altavilla ed Enrico VI



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Probabilmente accostare la Santa Veeme ai Vendicosi è un po’ una forzatura, ma si può notare come gli intenti siano simili, cambia solo la posizione nei confronti del “potere costituito”. Il collegamento tra i Vendicosi e i Beati paoli viene offerto, sempre tramite il Castiglione, da Mariano Scasso, traduttore del Burigny, che scrive in una nota a piè pagina: “Ella è costante opinione appo il Volgo, che più volte videsi rinnovellare cotesta Società di nascosti Vendicatori in Sicilia, ed altrove comunemente appellati Beati Paoli”. La stessa ipotesi viene avanzata da un passo di Gabriele Quattromani, citato nel libro “I Beati Paoli” di Francesco Renda, tratto dalle “Lettere su Messina e Palermo di Paolo R.” (1835): “Io non so come questa terribile setta si estinguesse e parmi non errare se la credo figlia di quel che in Germania chiamavasi tribunale segreto Vesfalico o santo vehemè o vehemè gerichte”.
Identificata una più o meno plausibilità storica dei Beati Paoli, un’altra necessaria precisazione riguarda l’origine del nome. Le teorie possibili sono due: la prima è il riferimento a San Paolo poiché, secondo la leggenda, chi nasceva la notte del 29 giugno aveva nella saliva straordinarie proprietà medicamentose (i cirauli) e questo lo rendeva un uomo eccezionale; la seconda è legata a San Francesco di Paola: costoro era i devoti del Beato di Paola.

i Santi Paolo di Tarso e Francesco di Paola



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I Beati Paoli, comunque, restano per anni ai margini della storia di Palermo e dell’intera Sicilia. Solo dopo il 1841, con l’espandersi delle società segrete patriottiche, i Beati Paoli escono da quell’angolo nel quale la storia li aveva relegati ed entrano a pieno titolo nella leggenda.
Non è del tutto provato, ma a questo punto pare chiaro che una setta o un’associazione segreta con le connotazioni che vengono attribuite ai Beati Paoli, sia veramente esistita a Palermo. Erano e sono in molti coloro propensi ad affermarlo, anche se le informazioni sull’attività dei Beati Paoli sono spesso frammentarie e spesso in contraddizione tra loro; gli stessi documenti ufficiali delle varie epoche su sette e associazioni segrete sono poco chiari.
Ma è con il libro di Luigi Natoli che i Beati paoli conquistano definitivamente il loro importantissimo posto nell’immaginario collettivo dei siciliani. Anche Natoli, come evidenziato da più parti, non utilizza molto il materiale storico e ben poco, tra l’altro, poteva utilizzare. Concordando totalmente con il Renda, l’idea che qualcuno potesse riparare alle iniquità, alle ingiustizie di uno stato corrotto ed inefficiente doveva necessariamente farsi strada in una società come quella siciliana.

Luigi Natoli



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Tutto questo sembrava perfino calzare con il modello di una mafia “romantica”, diffuso fino ad una ventina di anni fa. L’antistato che sostituisce, integra e sopperisce allo Stato. Adesso che la mafia ha svelato la sua vera immagine e lo Stato, purtroppo, rimane sempre distante, ecco che i Beati Paoli diventano un modello ideale, una mitica età dell’oro e della ragione alla quale guardare con nostalgia.

una riedizione de "I Beati Paoli" di Luigi Natoli



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Dalla pubblicazione del libro di Luigi Natoli, l’interesse sui Beati Paoli e sulle loro leggendarie gesta è cresciuto a dismisura. Negli ultimissimi anni, oltre al saggio introduttivo di Umberto Eco all’edizione del 1972 de “I Beati Paoli” di William Gelt (pseudonimo di Natoli), edita da Flaccovio, altri due interessanti lavori sono quelli curati da Francesco renda e da Francesco Paolo Castiglione per i tipi della Sellerio. Ad entrambi, nelle loro pur esaurienti bibliografie, sembra essere sfuggito un libro di Giovanni De castro, pubblicato dalle Edizioni Athena di Milano nella seconda metà del 1800 e ristampato dalle Messaggerie Pontremolesi nel 1990 dal titolo “Le società segrete dal medioevo al XIX secolo”.
Il lavoro del De Castro si divide in cinque sezioni: Le società militari e religiose, I Templari, I Vendicatori, Astrologi e Alchimisti, le Società dei lavoranti. Il capitolo “I Vendicatori” si divide in tre paragrafi: la Santa Veheme, I Franchi Giudici e I Beati paoli.

un'edizione de "Le società segrete dal medioevo al XIX secolo" di Giovanni De Castro



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De Castro descrive brevemente questa società segreta siciliana e quindi lascia spazio alla testimonianza del marchese di Villabianca (citata integralmente anche da Francesco Renda). Ma l’elemento di particolare novità sembra essere contenuto nella nota a piè pagina nell’apertura del paragrafo: “Abbiamo sui Beati Paoli un romanzetto di Vincenzo Linares, Palermo 1840, ed una ballata di Felice Bisazza”.

una recente edizione del racconto "I Beati Paoli" di Vincenzo Linares



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I BEATI PAOLI

di Giovanni De Castro

Di questa setta, durata per molti secoli in Sicilia, sono sì poche le notizie, che certo deve essersi circondata di grandissimo segreto. Sparsa in tutta quanta l’isola, ove generò terrore tradizionale, attecchì eziandio oltre il Faro, segnatamente nelle Calabrie, e qui prima che altrove fu scoperta e crudelmente repressa e punita dai feudatari che da essa si vedevano pigliar la mano nell’ambìto ministerio di fare alta e bassa giustizia. Istituzione popolare formatasi per contrastare la baronale prepotenza, non seppe contenrsi ne’ prefissi limiti, trasmodò, macchiossi d’atti riprovevoli; sicchè varia fama ne dura, e vario giudizio se ne porta dai contemporanei.
Non è, come a primo aspetto potrebbe credersi, un fatto isolato. Si vorrebbe da taluno riguardarla come un altro effetto di quella propaganda eretica, che si allargò in tanta parte dell’Europa nel Medioevo. Fra gli eretici di maggior grido ho già ricordato quell’abate Gioachino, calabrese, le cui profezie e stranezze compaiono nell’Evangelium aeternum del frate Gherardino, libro che si conosce essere stato appunto uno de’ testi de’ giustizieri siciliani. E non è inverosimile che l’abate Gioachino, nato così vicino alla Sicilia, abbia potuto qui più che altrove spandere le sue idee, e disporre gli animi a reazione violenta contro i soprusi di Roma e de’ signori. L’Evangelum aeternum, tessuto di bizzarrie cabalistiche e gnostiche, era dai Beati Paoli anteposto al nuovo e al vecchio Testamento, perocché essi ritenevano con altri settari di quel coronale che l’impero del Vangelo doveva cessare nel 1260, nel quale anno si sarebbe promulgato un nuovo codice religioso, e l’ordine de’ mendicanti doveva acquistare il governo della Chiesa rinnovellata. I Beati Paoli rinnegavano altresì la credenza della dualità, e facevano dio creatore del male e della morte: del male, perché pose nel mistico giardino il mistico pomo; della morte, perché mandò il diluvio, sfolgorò Sodoma e Gomorra: accozzo di superstizioni e puerilità.
Nata propriamente in Sicilia nel 1184, quando la feudalità aveva così profonde radici da consentirsi ogni bravo pensiero, tolse a programma un passo del miscreduto vangelo, almeno in questo creduto e praticato troppo più che non convenisse: “Imperciocché io vi dico che se la vostra giustizia non sarà più abbondante di quella degli Scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”.
Nel silenzio generale degli storici, ne piace riferire l’ingenuo racconto di un letterato siciliano, rimasto inedito fino al 1840, ed ancora poco noto e raro, il quale può dirsi il solo documento che si conosca su questa famiglia di vendicatori, che rinnovarono nell’estrema Italia i lutti e il terrore dei tribunali vestfalici”.


Ma chi erano veramente questi “scellerati” come li definì il Marchese di Villabianca che ne parlò in uno dei suoi diari palermitani, in uno degli ultimi “Opuscoli” scritti nel 1790.
La loro vicenda, inquadrata in un contesto settecentesco, si snoda lontano dal mare, dai colori e dalla luce dell’abbagliante sole palermitano, si dipana nel cuore segreto di Palermo, tra gli antri oscuri e le gallerie sotterranei di uno dei quartieri più popolare, “il Capo”.
Ancora oggi, in questi luoghi, quando si accenna alla loro esistenza, l’uomo di strada si cela dietro un alone di omertà, infatti, sembra impossibile, a distanza di tanti secoli dal loro presumibile scioglimento sono protetti dal popolo incredulo, ogni qualvolta a Palermo si scopre una cavità sotterranea tutti ricorrono mentalmente alla famosa setta d’incappucciati.

il Quartiere "Capo" a Palermo



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Misteriosa e temuta, questa setta, operò tra la fine del XV e, la prima metà del XVI secolo, nata dallo strapotere e dai soprusi dei nobili, che amministravano direttamente la giustizia, agiva nell’ombra e nella massima segretezza per proteggere i deboli e gli oppressi.
Di questa setta l’origine è oscura non esistendo fonti storiche e tanto meno documenti che possano attestare la loro esistenza, la sua storia fu tramandata esclusivamente dalla tradizione orale e tutti i letterati attingono nel famigerato “Opuscolo” dell’erudito palermitano che ne descrisse i luoghi e il suo famigerato tribunale, anche gli autori come il Linares ed il Natoli in seguito hanno attinto in esso, fino a quest’ultimo quando all’inizio del novecento pubblicò “I Beati Paoli”, lo scrisse tra il 1909 e il 10 come romanzo d’appendice che veniva regalato dal Giornale di Sicilia ai propri lettori, ebbe un successo enorme, è compi un miracolo retroattivo, diede concretezza ad una favola, quello che era stato un racconto un po’ confuso e con mille particolari diversi secondo il narratore, acquistò dignità, diventò realtà accettata da tutti, forse grazie alle diverse descrizioni di angoli della città, in cui si svolgevano gli avvenimenti, realmente esistenti ed all’inserimento di personaggi operanti nella vita quotidiana palermitana di quel periodo settecentesco, dame incipriate ed intricate, cavalieri ardimentosi che si battevano per difendere l’onore di queste donne insidiate, avvelenatrici che spacciavano veleno in una società sfarzosa, dove sbocciavano amori purissimi e passioni insane, circolavano “birri” che indagavano per loschi interessi, inseriti per impressionare la fantasia popolare.
Il Villabianca nel suo “opuscolo” (tomo XVI) fa capire, con qualche rivelazione incerta, l’esistenza della setta dei Beati Paoli che viene fatta risalire alla fine del XII secolo e noti con l’antica denominazione di “Vendicasi” e, allegando nientemeno che dei nomi di alcuni dei suoi adepti: il “razionale” Girolamo Ammirata impiccato al piano del Carmine nel 1723, il maestro scoppettiere Giuseppe Amatore passato per la forca nel 1704 nel piano della Cattedrale, ed il consapevole amico del Marchese e famoso cocchiere Vito Vituzza.

uno degli "Opuscoli" del Marchese di Villabianca



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Nel romanzo natolitano, i Beati Paoli, si comportano a fin di bene, tolgono ai ricchi e danno ai poveri, le gesta di questi uomini che all’occasione risultavano essere incappucciati e, vestiti di un saio nero dei frati minimi di San Francesco di Paola, punivano i potenti responsabili di soprusi sfuggendo alla legge costituita.
Palazzi e chiese erano collegati da una fitta ragnatela di cunicoli che permettevano agli appartenenti alla setta di agire indisturbati e di trovarsi là dove nessuno se lo aspettava, infondo così racconta la leggenda.
Come è legato San Francesco di Paola ai Beati Paoli? Solo ed esclusivamente all’abito che indossavano e, per la vicinanza del convento al quartiere in cui essa agiva e alcuni narratori vogliono dire alla presenza di un pozzo che comunicasse con la fitta rete sotterranea del “Capo”.

la Chiesa ed il Convento di San Francesco di Paola a Palermo



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Gli adepti venivano prelevati di notte e condotti nel covo segreto della setta per essere affiliati con il rituale clandestino, la stessa procedura di prelevamento seguivano gli imputati e davanti ad un tribunale venivano interrogati e a volte sentenziati a morte.

il rituale di affiliazione ai Beati Paoli



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Processavano chi abusava del proprio potere e della particolare posizione sociale, per commettere soprusi ai danni dei più deboli ed indifesi.
Chiunque avesse subito un’ingiustizia poteva contare su l’intervento di questa società segreta, che emetteva verdetti inappellabili e spietati, chi veniva condannato a morte, senza scampo, la sentenza veniva eseguita a colpi di pugnale.

processo e conseguente condanna a morte eseguita dai Beati Paoli



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“Era una specie di grotta, scavata nel tufo di forma circolare a cupola, in mezzo al locale vi era posizionata una tavola di pietra, l’uomo che aveva dato l’ordine stava seduto dietro quella tavola, il suo cappuccio nero era ampio e tutto chiuso come i confrati incappucciati e gli scendeva in mezzo al petto” così lo descriveva nel suo romanzo il Natoli il loro tribunale con il “Capo” che sentenziava.

la presunta Grotta dei Beati Paoli come si presenta oggi ai turisti



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Il misterioso antro, visitato nella seconda metà del settecento dal Marchese di Villabianca di cui lasciò un’ampia descrizione di quello che aveva visto nei suoi “opuscoli palermitani”…
E’proprio li, immersa nel trambusto di uno dei più vivaci mercati popolari di Palermo, quello del “Capo”, una targa marmorea, ben visibile sulla facciata di un vecchio palazzo, che non lascerebbe dubbi, nella quale sono incise queste parole: “Antica sede dei Beati Paoli”, voluta espressamente nei secoli passati da un altro versato che la visitò: Vincenzo Di Giovanni e, che da diversi anni rimane nell’oblio per intrecciare ancora una volta la realtà con la leggenda.

la targa marmorea che richiama la sede dei Beati Paoli



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“La casa dell’avvocato Giovambattista Baldi si trova a San Cosimo nella vanella di Santa Maruzza, nel quartiere Capo.
Dal primo piano dell’ingresso di questa casa, passando per una porticina, si arriva in un piccolo baglio scoperto, in cui sorge un basso albero boschigno, e il piano su cui si cammina non è altro che lo strato di una volta ben larga, che copre la grotta sottostante.
Nel centro della volta vi è un occhio con grata di ferro che serve da spiraglio e lume alla sotterranea caverna.

la volta della Grotta dei Beati Paoli



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In questa scendersi per cinque scoglioni di pietra rustica che in faccio presentarvi in una piccola oscura stanza con in mezzo un tavolo, da qui si entrava nella principale grotta ove trovasi una ben larga camera con sedili tutto all’intorno e col comodo di cava o sia nicchie e scansie nelle quali si posavan l’armi si di fuoco che di ferro”…
“…or qui adunavansi questi sectarij e vi tenevano le loro congreghe in luoghi oscuri e dopo il tocco della mezzanotte vi capitavano onde e tutte facevansi a lume di candela”.
Aggiunge il Villabianca che, oltre l’ingresso di casa Baldi, in vicolo degli Orfani esisteva un altro accesso alla grotta.
Oggi, dopo un accurato restauro della zona, la grotta con gli annessi ha riaperto una nuova ipotesi su quella che di tanto mistero avvolse la fatidica setta.
Essa, fa parte di un complesso di cavità di quello che era il letto naturale del fiume Papireto, ricavata nella sua sponda di sinistra in un grosso blocco di calcarenite.

l'accesso alla Grotta dei Beati Paoli



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Nei secoli, venne interessata , ora come luogo di riunione segrete (secondo quanto tramandatoci dalle tradizioni), ora come butto, cioè come immondezzaio privato, sfruttando la preesistenza dell’ipogeo, ora come rifugio durante le incursioni aeree della seconda guerra mondiale.
Ma la vera funzione per cui fu utilizzata sin dal XVIII secolo, per le sue caratteristiche si richiama a quelle che erano le “camere dello scirocco”.
Il baglio scoperto esiste ancora, sul retro della chiesa di Santa Maruzza di cui ne è la quinta, era fino a poco tempo fa un piccolo giardino, ma l’albero boschigno che copriva l’accesso alla grotta è stato tagliato tanto tempo fa, dopo il restauro del baglio si è ricavato un cortile lastricato che serve come accesso.

la Chiesa di Santa Maruzza o Chiesa di Santa Maria di Gesù a Palermo



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All’antro, accessibile da nove gradini, si perviene attraverso un piccolo ingresso che dà sul vicolo degli Orfani dove è presente una vasca seicentesca con un ninfeo in pietra lavica, alimentata da una vecchia torre d’acqua.

il Vicolo degli Orfani a Palermo



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Al centro di essa si vede ancora il buco o lucernaio, ostruito dal recente rinnovamento della palazzina soprastante (ex palazzo Baldi).
La cavità in un angolo, nella parete di sinistra, contiene un profondo pozzo seriale con piccoli incavi dette “pedarole” per raggiungere la sorgente alimentata da acqua limpidissima.

una delle pedarole della Grotta dei Beati Paoli



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E’ attorniata da un sedile in pietra ricavato nella stessa roccia, nella parete di destra è ricavata una nicchia aperta che fa pensare ad un passaggio.
Accanto ad essa, alla profondità di tre metri e mezzo, c’è un cunicolo che porta ad altre grotte, che sicuramente custodiscono nuovi misteri.
Cunicoli che affondano la sua distesa rete in una presenza presso il più vasto dei complessi cimiteriali ipogei conosciuti a Palermo, le Catacombe paleocristiane dell’IV-V secolo d.c., e si dipartono oltre le antiche mura di Porta d’Ossuna, nella depressione naturale del trans-papireto che si distribuiscono all’interno del quartiere, il “Capo”, segreto di quell’imprendibilità che contribuì ad alimentare il loro mito e l’alone di mistero che li circondava.

Palermo ai tempi dei Beati Paoli



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I giustizieri erano in grado di apparire misteriosamente al cospetto della vittima designata, colpire e sparire rapidamente.
L’esistenza di altri ipogei nel sottosuolo palermitano come: cripte al di sotto delle chiese o quella della canalizzazione delle acque “qanat” o passaggi scavati sotto terra creati di proposito come quello delle monache di Santa Caterina per raggiungere un loggiato sul Cassaro ed assistere alle varie manifestazioni che vi si svolgevano senza essere viste.
O semplicemente per creare un accesso per scendere nella sepoltura sottostante come il curioso scanno di un mobile di sagrestia in legno intagliato che si trova all’interno della seicentesca chiesa di San Matteo.

l'accesso alla cripta nella sagrestia della Chiesa di San Matteo



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Grazie a questo reticolo di cunicoli estremamente esteso che, l’autore del romanzo mette in evidenza, che attraversava tutta Palermo ed arrivava fino in aperta campagna permettendo ai fuggiaschi di scomparire.
Esplorati in tempi recenti, sia questi descritti, sia gli altri ipogei poco conosciuti non rivelano i loro segreti, conservano ancora i loro misteri.

la mappa dei cunicoli di Palermo utilizzati dai Beati Paoli



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Realtà o leggenda, a noi piace credere che i Beati Paoli siano realmente esistiti e perché no, un giorno forse ritorneranno all’azione, per adesso la loro storia rimane nascosta tra i mercati, le mura e le chiese di una delle più affascinanti città siciliane.



(dal web)
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