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Racconti siciliani: Maria Messina - Il pozzo e il professore  Empty Racconti siciliani: Maria Messina - Il pozzo e il professore

Sab 22 Apr 2023 - 17:59
Racconti siciliani: Maria Messina - Il pozzo e il professore  YLFpUoF



— Ancora! — scattò il professore con impazienza, mentre la donna rifaceva lentissimamente il lettino.
— Ho finito. Ma creda...
— Sbrigatevi! per favore. Non posso lavorare finché voi siete qui.
— ...lei sposerà dentro l'anno, e sposerà donna Pidda!
— Finitela! Pidra! Una moglie che si chiama Pidra!
— La chiamerà come vuole. Donna Pidda pare sia cresciuta apposta per lei. Ha vent'anni. Lei quanti anni ha? Non me lo vuol dire? Non importa. Gli occhi li ho, e vedo che è giovane. Donna Pidda è bruna; lei è biondo. E poi ha un corredo che può servire a dieci spose: tela in pezza, coperte di seta e di cotone...
— Non saprei che farmene, di tela e di coperte!
— C'è la dote. Altro se c'è! Non creda che don Mauro Laganga...
— Oh! Avete proprio finito!
— Aspetti che spolvero.
— Spolverare? Andate via!
— Come vuole.
— Andate, andate! — ripeté il professore sedendo a tavolino. — La vostra parlantina è veramente insopportabile!
Anna si allontanò, brontolando.
Pareva un po' matto, quel suo padrone, che studiava anche la domenica, e mentre era a tavola si alzava per sfogliare un libro, come se avesse dovuto trovarvi un foglio da cento lire, o scriveva nel taccuino, scordandosi di mangiare; ma Anna era sicura di riuscire.
Egli aveva fatto buona impressione a donna Grazia Laganga, la madre di Pidda, che si era nascosta due volte dietro la persiana per vederlo passare: era troppo magro, sì, vestiva un po' trasandato, sì, ma, a sentire gli elogi di Anna, doveva essere buono come il pane. E poi, Pidda avrebbe messo il cappello. Il brutto era che un impiegato deve andare di qua e di là: ma il compare aveva assicurato che quando il professore avesse gustato le terre di San Martino e la casa comoda, non avrebbe più voluto ramingare, e Pidda sarebbe restata in famiglia.
Persuadere donna Grazia, animata dall'ambizione d'insignorire, era facile impresa; voler discorrere col professore era lo stesso che parlare al muro: ma Anna, che si aspettava bei regali dalle nozze, non si stancava, nelle ore che passava a servirlo, di ripetere le stesse esortazioni e le stesse domande al padrone che non si degnava di risponderle.
— Povera moglie! — borbottava, se lo vedeva scrivere a tavola, fra un boccone e l'altro. — Che fatica levargli tanti vizi!
— Loquacissima donna! — esclamò un giorno il professore che il desinare abbondante e l'aria già calda di maggio facevano indugiare davanti una grossa chicchera di caffè, — come volete che sposi una signorina senza conoscerla?
— Se lei la vede una volta! — fece Anna tutta contenta per la confidenza che le dava il padrone, finalmente.
— ...vorreste presentarmi voi?
— Non sarei forse capace?
— Voi?
— Non c'è niente di male.
— Davvero!
— Che farebbe lei? sentiamo.
— Niente. Non farei niente.
— Ma immaginiamo che volesse sposare chi dico io.
— Un amico, una persona di riguardo dovrebbe prima...
— Se manca per questo! — interruppe Anna trionfante.
— Non manca per questo.
— Don Nicolino, il maestro di scuola — continuò Anna imperterrita, — lei lo conosce. Lo so. Don Nicolino è compare di don Mauro Laganga, il padre di donna Pidda. Lo dica a lui. Meglio di lui non credo che possa trovarlo.
Ora avvenne che il professore, incontrando don Nicolino per i viali della Villa (che lusso di fiori, in ogni siepe!) gli domandò dei Laganga.
— Che gente è?
Don Nicolino si fermò e guardò il professore dalle scarpe al cappello.
— I Laganga? — esclamò con ammirazione. — Guardi la figlia: è proprio lì.
Passava una giovanetta, avviluppata nello scialle di seta nero, in mezzo a due vecchie: abbassò gli occhi e arrossì, mentre il professore e don Nicolino si scappellavano.
— Le piace?
Il professore non rispose, seguendo con lo sguardo le tre figure nere che si allontanavano.
Pensava che la giovanetta doveva essere molto carina, senza scialle. Ora, a vederla così, alla sfuggita, gli era nata la voglia di rivederla, di conoscerla.
Don Nicolino, già vecchio, ispirava fiducia; gli riferì le parlate della serva. Era turbato, e perciò sorrideva, cercando di parere ironico.
— Io non ho proprio intenzione di ammogliarmi. Ma sono fatalista.
Sì, il professore era fatalista. Senza volere chiacchierò a lungo col maestro del proprio avvenire; della carriera e delle alte speranze. Il vecchio, dopo avere bonariamente ascoltato, lo esortò a prendere moglie, poi che la buona sorte glie ne metteva una sulla strada.
La sorte, la fatalità... Sì, qualche cosa conduce gli uomini nelle vie della vita, pensò il professore; e davanti al rosso tramonto, in mezzo all'aroma delle rose, egli si sentiva piccolo e stordito.
— Lei è giovane, figliolo mio! Ma la giovinezza non dura! Può farsi avanti lo stesso con una buona e devota moglina a fianco!
— Certo, certo...
— Don Mauro è in paese. Tra venti giorni riparte per la campagna — rammentò don Nicolino. — Ci penso io. Le piace?
Vi pensò davvero.
Una sera picchiò all'uscio del professore che venne ad aprirgli tenendo la penna in mano (aveva gli occhi piccoli piccoli per la stanchezza).
— È fatta!
— Che cosa?
— Come che cosa? E tutti i discorsi di sabato?
— Di sabato? Già già! della signorina Pidra!
— Senta — esclamò il maestro addolorato. — Credevo che fosse una persona seria lei! Non mi sarei impegnato, non avrei compromesso la mia parola, se avessi saputo che lei è un ragazzo! Mi pareva pronto, convinto, quasi commosso!
— Ricordo, ricordo. Va bene. Dunque lei ha domandato la mano della signorina che non conosco...
— Badi, se non è deciso, rifletta. Lei può ancora ritirarsi. Se mette piede nella casa dei Laganga... Ma è inutile: lei ride!
— Non tema, signor Nicolino. Io sono deciso. Non mi faccia gli occhiacci! Mi ricorda la prima volta che mi dovevo confessare, avevo nove anni e non sapevo bene il Confiteor. Per questo solo ridevo.
— Allora domani, domenica?
— Domani.
— L'accompagnerò io, s'intende. Si vesta un po' più... un po' più... Insomma, si vesta benino.
— Ma, signor Nicolino, forse io...
— Non si offenda. Ma vede, lei non porta neanche la cravatta. Mi permetto di dirglielo perché sono franco... e poi... l'ho veduta sempre con un fazzoletto di seta al collo... e poi...
Don Nicolino se ne andò, scusandosi.
Pure, una volta uscito fuori, si pentì amaramente di aver presentato un matto come il professore alla famiglia Laganga che, a voler girare tutta la provincia di Messina, non se ne trovava un'altra così ritirata e per bene!
Il professore, aspettando nel salottino, osservava con curiosità le pareti coperte di ritratti chiusi nelle cornici di velluto ricamato, di porta-giornali senza giornali, di cornucopie colme di fiori finti, di ventagli antichi e di calendari vecchi; egli aveva sempre creduto che salottini a quel modo non ce ne fossero più, altro che nelle novelle provinciali: e però la sua curiosità era piacevole, come quando rivediamo un luogo dimenticato.
C'era molto silenzio e molta pace. Il portone s'era aperto da solo; non ricevuti da alcuno, erano saliti ed erano entrati nel salottino, piccolo e pieno di mobili. Pure erano aspettati.
Si sentì rumore.
Eccoli: il padre, la madre, la figlia. Strinsero la mano al professore, come se lo conoscessero, e sedettero. Il padre, grande e maestoso, guardava in silenzio ora don Nicolino ora il forestiero, il quale cominciava a sentirsi a disagio. La signorina Pidda, volendo sembrare disinvolta, si moveva ogni tanto sulla seggiola, come se dovesse alzarsi.
La madre parlò del caldo e dell'umido; poi domandò quanto guadagnasse il professore. E sì come don Mauro si corrugò, udendo la risposta, il compare assicurò che, col tempo, il professore avrebbe guadagnato moltissimo.
Finalmente donna Grazia offrì paste, rosolio e caffè, il professore si alzò e domandò a don Mauro l'onore di tornare.
— Per conoscervi un poco... — osservò don Nicolino.
— È giusto — fece la madre guardando il marito. — Se vuole disturbarsi...
— Prego!
— ...venga ogni giovedì, alle quattro. Va bene?
— Una volta sola nella settimana? — esclamò il giovane galantemente.
— Sì — affermò il padre che non aveva ancora fatto sentire la sua voce grave e profonda. — Non più di una volta.
Pidda sola era felice, pur mostrandosi piena d'indifferenza come si conviene a una fanciulla bennata.
Gli altri erano tutti quasi scontenti: a cominciare da don Mauro, che dovette ripartire, sino al professore che usciva ogni giovedì dalla casa dei Laganga col proposito di non tornarvi più.
In due mesi di visite settimanali, egli non aveva parlato una volta con la fidanzata da solo a sola. Le due donne lo ricevevano festosamente, nella stanza dove lavoravano, ma subito sedevano ciascuna al suo posto: fra le tre seggiole, ben distanti l'una dall'altra, si tesseva qualche sorriso, qualche frase vuota e scipita.
In due mesi di visite settimanali, egli non aveva parlato una volta con la fidanzata da solo a sola. Le due donne lo ricevevano festosamente, nella stanza dove lavoravano, ma subito sedevano ciascuna al suo posto: fra le tre seggiole, ben distanti l'una dall'altra, si tesseva qualche sorriso, qualche frase vuota e scipita.
Un giorno il professore spiegò alla futura suocera che lui e la signorina avevano necessità di conoscersi, prima di sposare.
— È giusto! — rispose la madre, e cambiò il posto delle seggiole, di modo che i fidanzati poteron discorrere un po' più liberamente.
Così egli notò che Pidda era una ragazza senza istruzione e senza sentimento.
Ma ella gli piaceva, e volle educarla. Le domandava:
— Come hai passato ieri la giornata?
— Di festa non si lavora e mi sono annoiata tanto.
— Potevi leggere. Non hai qualche libro?
— Ne avevo uno, ma non mi piaceva guardarlo.
— Che libro? Me lo fai vedere?
— Sciocchezze... Un figurino.
— Oh! Lo chiami libro?
Egli ammutoliva, perplesso. Poi ripigliava pazientemente:
— È peccato sciupare il tempo così.
— Non avevo da fare.
— Ti porterò dei libri buoni.
— Non li leggerò.
— Perché?
— Perché no.
— Sono illustrati.
— No. Non portarli.
— Ma perché?
— Perché no.
La sua fidanzata, piena d'ignoranza e di ostinazione, non si sarebbe educata mai.
Talvolta era lei a domandare:
— Con chi sei stato a passeggiare, ieri sera?
— Non ho passeggiato. Ho studiato.
— Studi sempre?
Egli taceva: ben volentieri avrebbe voluto parlare del proprio lavoro alla promessa sposa, ma ella non si sarebbe interessata mai della sua vita di uomo studioso.
Un giovedì le portò dei versi e cominciò a leggerli forte, con entusiasmo: levando gli occhi a guardare Pidda, scorgeva nel viso di lei lo sforzo di non mostrarsi tediata. Si affrettò a concludere, leggendo male; e poi chiuse il libro lentamente, con tristezza, mentre Pidda diceva: — Bello! —, senza aver capito.
No, il professore non poteva sposare colei che restava così lontana dal suo spirito. E un giovedì, invece di prepararsi per la solita visita, scrisse una rispettosa letterina alla signora Laganga. Dopo averla scritta si sentì più tranquillo.
L'indomani, Anna gli fece molti dispetti; e in ultimo bruciò l'arrosto e mise un gran pugno di sale nell'insalata; alle sue lagnanze rispose borbottando che alla fine del mese andava a servire in casa di gente di buon senso.
Qualche giorno dopo si ammansì; tutta umile disse al padrone:
— Lei ha la faccia d'un galantuomo e donna Pidda non la vorrà rovinare.
— Io?
— Sì, lei. Donna Pidda si compromette a parlare con lei, di nascosto alla madre.
Il professore si corrugò.
— Vada giù presso il pozzo, alle sei in punto. Donna Pidda l'aspetta.
— Quale pozzo?
— Non ha mai veduto che nella corte, sul muro di qua, c'è uno sportello? Lei apre lo sportello e vede un pozzo. Apre un altro sportello e vede il cortile dei Laganga.
— Capisco.
Era seccato il professore, al pensiero che la serva sapesse i fatti suoi, e che lui dovesse giustificarsi; ma, per dovere di cortesia verso una donna, alle sei andò nella corte.
Aprì lo sportello: vide, nel buio fitto, un pozzo chiuso. Al rumore si fece la luce: Pidda si affacciava all'altro sportello.
Era bianca e tremava. Disse:
— La mamma crede che sia venuta qui ad annaffiare le piante.
— Ci sono delle piante?
— Non le avete viste mai?
— No.
— Ma non si tratta delle piante. La lettera che avete scritta l'ho nascosta. La mamma non sa niente.
Gli dava del voi. Con dignità accennava le conseguenze di una rottura; lei era rassegnata a tollerare tutto, il fatto di restare zitella non le premeva.
— Perché poi non vi dovreste sposare? — interruppe lui.
— Quando una si è fidanzata una volta... — mormorò lei, arrossendo. Subito confessò:
— Del resto io non vorrei bene a un altro, oramai...
Egli chinò il capo, come un colpevole; poi levò gli occhi, lusingato dalla confessione.
Ma fu ripreso dalla sua decisione.
— Io debbo essere sincero — cominciò.
E spiegò che dovevano romperla coraggiosamente, perché, fra di loro, c'era una diversità inconciliabile. Lui avrebbe voluto una fanciulla colta, che vivesse intensamente la vita dello spirito... Afferrato dalla eloquenza declamò un pezzetto, agitando le mani, dalle dita lunghe e scarne che al mezzo-buio parevano quelle d'un fantasma.
— Parlate piano — interruppe Pidda, con la voce rotta dalle lacrime. — Io non sapevo davvero che voi voleste tanto bene ai libracci. Non sapevo che cosa ci fosse dentro la vostra mente. Ora capisco. Ora io farei quello che vi piace. Mi metterei a studiare. Voi dovevate dirmelo. Io ero abituata con papà che gridava se vedeva per casa un pezzo di carta stampata, con la mamma che mi dice che una ragazza si deve tagliare le mani prima di scrivere i suoi pensieri. Io non ho amiche. E quelle poche ragazze che conosco sono come me. Io credevo che anche con voi mi dovevo mostrare così.
— E se non capivo le poesie, quel giorno, era colpa della mia ignoranza. Voi avreste dovuto spiegarmi. Non ero abituata, io, a sentir leggere. Imparerei. Ma ci vuole troppo tempo. Voi non potete avere la pazienza d'insegnarmi. E poi farei ridere la gente, coi libri in mano. Perciò è inutile che vi abbia detto di venire qui – inutile esserci veduti. Dobbiamo salutarci: per sempre...
E così dicendo, Pidda piangeva a dirotto; e qualche lacrima bagnò le mani che il professore teneva allargate sul coperchio del pozzo.
— Non scappate adesso! — esclamò lui, afferrandola per la frangia della sciarpa. — Sono stato una bestia, ve lo assicuro. Ma ora facciamo la pace! Giuseppina, fiorellino d'oro, vogliamo fare la pace?
Come fu che le piccole mani di Pidda si trovarono strette fra le mani del professore? Come fu che Pidda sorrideva, tenendo basse le palpebre arrossate dal pianto? E come fu che il professore parlò senza gesti, senza parole grosse, commosso e trepidante?
E fu bene che tra i due fidanzati ci fosse il pozzo (muto e prudente) a dividerli; ma anche, sicuro, che peccato non avere pensato prima al pozzo!
Ed ecco che il professore andò, il sabato e il giovedì, in casa Laganga; e sotto la sorveglianza materna parve un pedante maestro chiamato per istruire Pidda: molta lettura, un po' di storia, un po' di francese...
E Pidda fu presa da un grande amore per le pianticelle della corte: ogni sera scendeva coll'annaffiatoio, anche se la terra aveva bevuto l'acqua del cielo.
E così, tra le lezioni alla fidanzata e le deliziose chiacchiere dell'ora del pozzo, il povero professore si avvide, una sera, che le cartelle preparate sul tavolino erano intatte.
Mortificatissimo si guardò nello specchio per domandare perdono a se stesso: e invece di riconoscere una faccia compunta, nello specchio, vide un paio d'occhi così lucenti di felicità che non parevano i suoi.
— Ebbene! — esclamò forte, sbirciando le cartelle bianche. — Riparerò dopo il tempo perduto!
E immaginò se stesso al lavoro, aspettato da Giuseppina che voleva fargli gustare un bel pranzetto, e voleva raccontargli tante piccole cose, adorabilmente inutili, quasi come Anna aveva predetto.

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Fonte: Maria Messina - Ragazze siciliane

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Vivere senza leggere è pericoloso, ci si deve accontentare della vita, e questo comporta notevoli rischi.
(Michel Houellebecq)
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