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Racconti siciliani: Maria Messina - Luciuzza  Empty Racconti siciliani: Maria Messina - Luciuzza

Dom 24 Set 2023 - 20:41
Racconti siciliani: Maria Messina - Luciuzza  HBEac5Y

Luciuzza


Quando Àjta morì, nella stanza c'era soltanto Luciuzza che cullava la pupa presso il letto della malata. Àjta morì quietamente, come era vissuta, senza agonia.
La cognata che venne sul vespro, trovò la giovane con le mani unite sul petto, gli occhi socchiusi.
Luciuzza stava a guardarla.
— Non si vuole svegliare... — disse vedendo la zia.
Allora Pietra, spaventata, s'accostò al lettuccio. Toccò le mani della cognata. Poi dette un gran grido e si slacciò il corpetto e si sciolse i capelli. Le vicine accorsero, e cominciarono il rèpito.
Luciuzza che non aveva capito, che non s'era sgomentata guardando il viso esangue della morta, cominciò a tremare forte e a piangere, vedendo le vicine affollarsi intorno al letto della mamma che non si svegliava ancora, che non sentiva il lugubre gridìo.
Ma le donne non badavano alla piccina. Solo qualcuna vedendola gemé:
— Àjta! Àjta! Guarda la figlia tua...
Poi tornò ssu' Peppe dalla quota; sul canto della strada aveva sentito le voci, ed entrò a capo scoperto.
Anche lui, accasciandosi sulla cassapanca, con la faccia tra le mani, non pensò a Luciuzza.
La seconda sera del visitu, fratello e sorella si occuparono della piccina. Raggomitolata presso il focolare spento, col grembiulino nero, i capelli legati sul cocuzzolo come un pannocchino, Luciuzza era ancora spaventata.
— Povera nicuzza mia! — sospirò ssu' Peppe guardandola.
Pietra aveva il marito, la suocera, le sue faccende... Non poteva abbandonare la casa propria per accudire alla nipote.
— Per qualche tempo... — disse parlando piano per un cupo misterioso timore che riempiva la stanza diventata più grande e più scura. — Per qualche tempo può venire con me. Quel che basta ad uno, basta a quattro...
In que' due giorni, lei aveva riflettuto, prima di tutto che il fratello si sarebbe disobbligato e poi, col tempo, riammogliandosi, avrebbe ripreso la bambina in casa.
E dopo i tre giorni del visitu, Pietra lasciò la casa del fratello; conduceva per mano Luciuzza che la seguiva docilmente, co' suoi passettini brevi e disuguali, tenendosi lo scialletto chiuso sotto il mento come una vecchina.
Il marito di Pietra guardò la bimba e l'accarezzò.
— Povera creatura! — disse.
La suocera la guardò a lungo, poi si aggiustò le cocche del fazzoletto nero sotto il mento, sospirando.
E Pietra alzò le ciglia, come per dire:
— Quel che Dio vuole!
I tre visi, chini sulla bimba, erano velati di pietà e, più che di pietà, di sospetto e di diffidenza.
Luciuzza guardò tutti, sgranando gli occhi neri. Sentì aleggiare intorno a sé qualche cosa di nuovo, di pietoso, di pauroso; scoppiò in lacrime gridando disperatamente:
— Voglio la casa mia! Voglio la mamma mia!
La vecchia nonna la calmò. Le fece un discorso tenendole le manine gelate fra le sue calde e dure:
— Senti, Luciuzza. Tu sei grande e le cose le devi capire. La mamma non c'è più. La casa tua non c'è più.
I labbruzzi della bimba tremarono.
— Non si piange! — comandò dolcemente la vecchia guardandola. E Luciuzza intimidita restò immobile col visino levato e la boccuccia socchiusa. — Non si piange più. Ora c'è la zia Pietra, lo zio Alfio e la vecchia, la mammaranni. Devi essere buona e obbediente. Se sarai buona andrai in Paradiso, dov'è andata la mamma. Ma se piangi e ci farai disperare, lo zio Alfio ti picchia e poi Dio ti castiga e ti manda all'inferno coi diavoli...
Luciuzza ascoltava sbigottita la voce grave e bassa.
Nel cielo bruno luceva qualche stella; il vicoletto si riempiva d'ombre. Luciuzza si strinse al petto della vecchia.
Da quella sera non piange più. Sempre le pareva di sentir la mammaranni comandare con voce grave: — Non si piange!
Le cose nuove distraevano e stupivano Luciuzza. La casa di zia Pietra era grande: aveva due stanze e una finestra. Una scaletta di legno, che cigolava a pena vi si posava il piede, conduceva in una specie di abbaino, col soffitto basso, così basso che zia Pietra doveva piegare la testa – Luciuzza no, ci stava comoda, come in una camerina fatta apposta per lei; lì si tenevano le provviste dell'annata; le belle reste di cipolle, rosse come il rame nuovo, i sacchi del frumento, le mandorle, le castagne ammucchiate in un canto, i fichidindia gialli rosei verdolini protetti dai loro mille ciuffetti di spini che pungevano come aghi... Zia Pietra era ricca. Suo padre no, non aveva l'abbaino! Luciuzza contemplava quel bene di Dio con le manine unite. Quanti anni ci volevano prima che finissero tutte le provviste?!
Luciuzza saliva su un firrizzu e guardava fuori della finestrina. Si vedevano i tetti. Quanti! Tutti i tetti erano distesi sotto la finestrina.
A potervi camminare, da un tetto all'altro, si giungeva nelle montagne, proprio in quella montagna grande grande tutta blu macchiata qua e là di bruno... E dopo la montagna c'era il cielo. Si giungeva fino al cielo, dov'era la mamma.
Ma San Pietro l'avrebbe lasciata entrare? Il santo, che teneva le chiavi del Paradiso, era accigliato, aveva una gran barba – Luciuzza lo sapeva perché la nonna le aveva fatto baciare l'immagine; faceva quasi paura, quel santo!
Chi sa?! Forse, a pregarlo molto... Ma come poteva, il santo, ascoltarla se nessuno le dava mai retta, se nessuno si curava di lei?
Luciuzza, ritta sullo scanno di fèrula, guardava i tetti, il monte, il cielo, e pensando alla mamma si sentiva abbandonata e gli occhi le si gonfiavano di lacrime.
Ma improvvisamente si distraeva. Lontano, su' tégoli pieni di sole, brillava forte un vetro. Non si poteva guardare. Era forse un sole più piccolo caduto sul tetto?... Si vedeva muovere un che di rosso, come una fiamma. Era un'altra piccina, su un altro abbaino. Aveva la mamma, quella bambina, poi che vestiva di rosso... Non era morto nessuno, in casa di quella piccina...
Ma di nuovo il suo visetto si animava. C'erano dei fiori su un terrazzo, fiori bianchi e turchini, immensi, meravigliosi. Averne uno solo! Erano così grandi che uno solo avrebbe riempito di certo tutto l'abbaino. No, no! Era soltanto della biancheria stesa. Un colpo di vento aveva fatto vedere una camicia, un grembiule...
La chiamavano. Scendeva, si precipitava impaurita, col visetto rosso.
— Cosa facevi lassù, mal'erba? — diceva zia Pietra.
— Io... guardavo...
— Mangiavi le castagne, eh?... le sorbe...
— No, le giuro...
— T'ho detto mille volte che lassù non devi andare.
Luciuzza s'accoccolava presso il focolare, tutta afflitta. Pietra sbatteva l'uscio dall'abbaino per chiuderlo, dicendo alla nonna:
— Perché poi, va a contare tutto al padre! Gli fa credere a chi sa che abbondanze...
Non doveva andare più nell'abbaino. Zia Pietra non voleva. E c'era da vedere cose tanto belle, tanto meravigliose...
Ma Luciuzza non doveva replicare, non doveva piangere. La mammaranni, sull'uscio, le faceva gli occhiacci, pareva minacciare:
— Non si piange!
Piano, piano, col visino spaurito e gli occhi lustri, scivolava presso la cassapanca. Prendeva la sua bambola fedele – il padre glie l'aveva riportata una sera, nella cassetta con le robine – la baciava pianino, per non farsi sentire, le sussurrava un mondo di discorsi a fior di labbro. Spesso s'arrestava perplessa domandandosi se San Pietro la lasciava entrare con la bambola in braccio. Le bambole non vanno in Paradiso, non hanno l'anima... Pure, a nasconderla ben bene sotto il grembiulino? meglio ancora, sotto lo scialletto?... Poteva domandare alla nonna. Ma Luciuzza non ardiva.
Luciuzza non si sentiva ben voluta.
Eppure non la picchiavano mai. Zia Pietra aveva cura di pettinarla, di affettarle il pane; la nonna le faceva ripetere la preghiera ogni sera; lo zio Alfio, tornando dal Margio, le diceva sempre: — Ben trovata, Luciuzza...
Ma tutti, con tutte le loro buone parti, incutevano gran timore alla bimba. Ciò avveniva perché nessuno le voleva bene per davvero.
Alfio si seccava di quella bocca di più in casa; già che Luciuzza non gli veniva niente, proprio niente, non era altro che la figlia d'un cognato...
La nonna, la stessa nonna che avrebbe dovuto amare la nipotina, la figlia di suo figlio!, non la vedeva di buon occhio. Luciuzza somigliava alla madre come una goccia d'acqua: gli stessi occhi, la stessa carnagione delicata, chiara come quella d'una signora, perfino i gesti della povera morta... Ebbene, la vecchia aveva pianto quando il figlio aveva voluto sposare Àjta Bellocchio, buona per fare la monaca di casa ma non per essere la moglie d'un contadino!
Nella loro casa ci voleva altro che Àjta! Ci voleva una donna dalle buone braccia e dal petto solido; come Pietra, benedetta!, che andava alla Gebia a lavare con un fagottone in capo che le faceva piegare la schiena e un pezzo di pane scuro in saccoccia, che ogni sabato lavava i pavimenti, e a tempo di mietere seguiva il marito al Margio, faticando come un uomo, e andava a strappare le erbe, a raccoglier le patate, senza mai ammalarsi. Altro che Àjta!
Ebbene, anche Luciuzza non era di questa pasta.
Poteva la nonna stessa vederla di buon occhio? Né la nonna, né Pietra. Pure non la maltrattavano. Non c'era motivo del resto. Luciuzza pesava nella casa, quanto un cardellino in una gabbia. Si manteneva per una giornata intera con un orliccio di pane e un cucchiaio di minestra o un'arancia. E fastidio ne dava poco. Salvo quando scappava nell'abbaino – cosa che Pietra non voleva per paura che la piccina andasse a ridire le provviste che avevano – non c'era ragione di domandare: — Dov'è Luciuzza? Che fa Luciuzza?
Era sempre lì, davanti l'uscio o presso il focolare, a vestir la pupa, a cullarla, a raccontarle tutte le sue pene e i suoi bei disegni in aria, con un susurrio lieve lieve, più lieve del ronzìo d'un'ape che si ferma su un fiore.
Ebbene, anche questa vita da marmotta dispiaceva alla nonna, che un giorno sfogò con Pietra:
— Ti pare cosa giudiziosa lasciare crescere quell'anima di Dio come un animaletto! All'età sua io ero dietro a mia madre e facevo la mia parte di lavoro come una vecchia.
— Ma Luciuzza è un fil di paglia...
— Si comincia col poco. Che aiuti a spazzare, a pulire i rami, a stender le robe lavate. Si rinforzerà. Che almeno impari il punto della calza. Io, all'età sua, facevo una soletta ogni tre giorni.
— Lo so. Ma io, a dire la verità, non mi voglio impicciare dei figlioli degli altri.
— No?! E allora perché a tuo fratello hai promesso che avresti tenuto la piccina come una figlia tua? È un bell'onore per noi, fargli trovare fra qualche anno una ragazzina che non sa come si tenga la scopa in mano! È forse un barone tuo fratello?
— Proverò — disse Pietra corrugando le folte ciglia.
Così un mattino Luciuzza non trovò più la sua bambola. E si sentì fare un predicozzo da zia Pietra, che teneva una piccola scopa in mano.
Che voleva zia Pietra? Doveva spazzare, lavorare, non giocare più tutto il giorno...
— Qui... su questo mattone... Sciocca... Così...
Luciuzza sbigottita non capiva. Gli occhi le si gonfiavano di lacrime; la piccola scopa le cadde di mano. Pietra, irata, respinse la bimba.
— Così... così... così... — ripeté spazzando forte e di furia. Poi Luciuzza seguì la zia Pietra alla fontana, con un piccolo orciòlo infilato in un braccio.
— Ora sei grande, tu — le disse zia Pietra con voce raddolcita.
Era già diventata grande, dunque... Luciuzza si sentì guardata, ammirata da tutte le vicine.
Ma a riportare l'orciòlo fu un tormento. Le gambe le tremavano, sentiva un formicolìo nella schiena e la testa serrata in un cerchio. Non fiatò. Tenendo le manine in avanti giunse fino a casa senza chiedere aiuto. Quando zia Pietra le levò l'orciòlo di sul capo, il visetto della bimba era acceso e ridente.
— Vedi, il bel colore che ti viene! — fece Pietra sodisfatta.
E più tardi disse alla madre:
— Non credevo che avesse tanto buon volere!
Ma Luciuzza, la sera, non poté addormentarsi subito. Si sentiva le braccia e le gambe legate, un peso insopportabile sul petto, una gran voglia di piangere. Era stanca. Sull'abbaino non doveva andare più; la bambola era chiusa a chiave...
Oh, la mamma era stata cattiva – per la prima volta se ne accorgeva! – poi che l'aveva lasciata così sola, poi che s'era dimenticata di condurla con sé... Come mai la mamma s'era dimenticata di Luciuzza? Proprio la mamma che le voleva tanto bene?
Ma no. Anche la mamma era cattiva, anche la mamma l'aveva scacciata, tante volte. Ora se ne ricordava. Tante volte le aveva detto:
— Vattene, Luciuzza! Non stare sempre accanto a me. Non posare la bambola sul mio letto...
Perché l'aveva scacciata? e perché aveva pianto, dicendo così?
La testa le doleva forte. Passava il treno, sui tetti... Come rombava...
Chi sa che si vedeva sui tetti, col lume della luna?...
Luciuzza, tanto docile, un mattino si levò di mal umore.
Non voleva lavorare. Voleva la sua bambola.
Pietra cercava la soletta. Luciuzza fu assalita da una collera improvvisa.
— Non voglio, non voglio lavorare... — esclamò, tendendo le manine.
Pietra la guardò sorpresa. Cominciava a pigliare baldanza quel gattuccio mansueto? Questo poi!
— Obbedisci! — comandò.
— No! — ripeté la piccina, col visetto ardente, sfilando i ferri e gettando il gomitolo lontano.
No. Non voleva.
Era troppo. Pietra vide rosso. Scrollò Luciuzza, la picchiò. Cacciava le ugne, il gattuccio? C'era la maniera di mansuefarlo subito subito.
Pure, svanito lo sdegno, Pietra si pentì un poco.
La bimba accoccolata sul focolare piangeva sommessamente, col viso sul braccio.
Che gemere fastidioso!
— Taci — gridò. — Vuoi fare accorrere i vicini? Taci!
Luciuzza tacque, impaurita. Restò al suo posto, agitata da' singhiozzi repressi che la facevano trasalire tutta.
Per quella mattina le donne non si vollero occupare di lei. Non bisognava dargliela vinta.
A mezzogiorno Luciuzza non toccò il pane. La nonna impensierita propose:
— Vado io?
— Non c'è bisogno — fece Pietra. — La fame caccia il lupo dal bosco. Lasciale passare la mattana. Vedi com'è ostinata!
Pareva veramente ostinata. Con gli occhi a terra, immobile, restò presso il focolare fino a sera. Le orecchie le fischiavano forte. Provava amaro, opprimente il dolore di vedersi guardata come una bestiolina cattiva.
A sera, la nonna s'accostò alla nipotina.
— Ha la febbre — disse turbata. — Ha le mani bollenti.
La prese in collo per portarla a letto.
— Ti senti male? — le chiese.
— Sì — rispose Luciuzza. — Levi quella lucerna. Mi dolgono gli occhi.
Poi aggiunse con voce di pianto:
— Dica a quell'uomo che se ne vada. Picchia e picchia all'uscio... Che vuole?
La nonna mise un boccale davanti alla lucerna per smorzare il lume troppo vivo. Poi legò i capelli della bimba col nastrino di San Sebastiano perché cessasse la febbre.
Ma il solo nastrino non bastò. La febbre non si ritirava. Pietra disse dopo qualche giorno:
— La responsabilità è nostra. Ci vuole il medico. E bisogna avvertire il padre.
Il padre, come Alfio, non tornava prima della festa. Il medico venne il venerdì, quando Luciuzza non aveva più febbre, ma solo un po' di calore che le accendeva i pomelli. La guardò, crollando la testa, l'osservò, e scrisse una ricettina.
— È soltanto gracile, la piccina — disse accarezzandola. — Usatele qualche riguardo. Tenetela a letto se le torna la febbre.
Niente altro.
Pietra tornò alle sue faccende; la vecchia riprese a filare. Non si dissero niente. Tutte e due pensavano che sarebbe stato mille volte meglio se Luciuzza si fosse ammalata gravemente. O la morte o la salute. Non erano signori, non potevano far guadagnare il farmacista, loro che si davano la faccia sulle spine prima di mangiare un pezzo di pane. Il fatto di dover mantenere quella creatura come un uccellino malato, e chi sa per quanto tempo!, era peggio assai della morte.
Ma che fosse tornato Peppe! Glie l'avrebbero detto chiaro. Non potevano tenere l'ospedale in casa... Che provvedesse... che almeno le ricompensasse...
Pure la domenica, quando Peppe venne a veder la bambina – aveva portato i primi piselli della quota, poveromo! –, le donne non trovarono il coraggio di dirgli le crude parole che ognuna di esse aveva preparato in cuore.
Del resto Luciuzza, proprio quel giorno, stava meglio; aveva un po' di colore nel visetto smunto. I medici tutti son corvacci di mal augurio, in fondo in fondo. Chi poteva dire che Luciuzza non sarebbe diventata forte col tempo? Non per niente era figlia di Peppe Gàngula!
Ma dal giorno del medico le donne non martoriarono più Luciuzza.
O sana, o malata, non volevano rimorsi.
E la piccina riprese il suo posto presso il focolare che quando era acceso le dava un buon calore. Tornò a vestire e a spogliare la bambola, a sussurrarle misteriosi e lunghi discorsi. Restava nel suo cantuccio per ore ed ore. Anche se l'abbaino era aperto non vi saliva. Non poteva. Le gambe le tremavano se si provava a salir la scaletta. Il suo gracile corpo che pesava quant'un guscio di noce, pareva trascinare un peso, un peso insostenibile che le fiaccava le ossa.
Quando si sentiva venir la febbre, raccoglieva i cenci della bambola e si andava a coricare senza chiamar nessuno.
Dicevano: — Dov'è Luciuzza?
La trovavano raggomitolata nel suo lettino, con la coperta tirata fin sopra le orecchie, quieta come una vecchina. La nonna sospirava, rincalzandola.
— Povera creatura!
Pietra diceva:
— Ho paura che cresca con troppe smorfie, io! Ma che fare?... Se Dio liberi!... Peppe potrebbe pensare che l'abbiamo trascurata.
Un mattino Pietra cercò un pezzo di tela rada, fra i cenci vecchi e i ritagli che serbava in una piccola sporta; le serviva per fare un empiastro alla nipotina che aveva la tosse.
Luciuzza dal suo lettino guardava. Vide un ritaglio di broccato, bello, fatto di tanti colori, a fiorami... Lo desiderò così forte che trovò il coraggio di chiamare la zia:
— Zia Petra!
— Che vuoi?
— Me lo vuol dare quel pezzetto di roba?
— Quale?
— Quello... tutto a fiori... — supplicò con ardore.
— Sei matta? A che ti serve?
— Ne faccio un abito alla pupa. Me lo dia, za' Pietra!
— Bedda matri! quanti capricci! — sbuffò Pietra riponendo la sporta. — Non solo ti debbo curare! anche le voglie ora ti debbo far passare.
La bimba piagnucolò un poco. Non vedeva che il pezzo di broccato a fiorami.
— Ne faccio un abito alla pupa! — implorava ancora, tossendo. Ma la voce di zia Pietra che tornava coll'empiastro la fece tacere impaurita. Com'era adirata zia Pietra!... E quell'empiastro fumante? Stese le manine per difendersi.
Pietra chiamò la nonna perché tenesse ferma la piccina.
— Se vossia sapesse quanti capricci le nascono! — concluse Pietra coprendo ben bene la bimba che s'era calmata.
— Povera creatura! — sospirò la nonna.
Luciuzza, stanca, si addormentava. Fra le ciglia brillavano ancora le lacrime come gocce di rugiada.
Luciuzza si svegliò pensando al ritaglio di broccato. Era oppressa dall'acuto desiderio di possedere quella meraviglia di colori.
Si chetò piano piano, guardando il manico della sporta che spuntava di dietro la cassapanca.
Luciuzza aspetta che la nonna venga a levarle l'empiastro.
— Sta' quieta — le raccomanda la vecchia nonna. — Non ti voltare. Non prendere freddo.
Aspetta che tutto sia silenzio. Essa conosce ogni rumore, nell'altra stanza. La zia ora dà il pastone alle galline. Ora prende il pane dalla madia – sente il colpo secco del coperchio; ora non ode più camminare. Son sedute tutte e due davanti all'uscio. Non si alzeranno per un pezzo. La nonna ha certo il fuso in grembo, col pane; la zia la calza fra le mani. Mangiano e lavorano... Luciuzza sente la nausea del cibo.
Oh, lei non mangiava più quasi nulla. Lei voleva un ficodindia... uno di quelli dell'abbaino... roseo e fresco...
Ma ora non è tempo di pensare ai fichidindia. Tutto è silenzio. Luciuzza scende dal letto. Le sue scarpette non ci sono... Allora mette i piedini a terra, corre presso la sporta col cuore che picchia e salta dalla paura. Alza il coperchio. Fruga in fondo. Non c'è!
Viene forse la zia?
Eccolo! Eccolo! Chiude la sporta. Si rimette nel letto. Ma prima nasconde il ritaglio di broccato sotto la materassa.
Viene qualcuno?
Ora trema dal freddo. I piedini non si vogliono riscaldare. Pare che il letto sia pieno di neve. Ma che importa? Luciuzza è tutta eccitata dalla gioia di aver trovato il suo bel broccato. Come deve essere bello!
Chi canta sui tetti? E perché la luce diventa color della cenere? Chi le preme il petto con la mano grande, pesante che pare di piombo?...
La nonna giunse le mani, guardando l'immagine e il nastrino di San Sebastiano messi a capo del letto. Pietra portò un po' di fuoco nella stanza, poi che la bimba tremava dal freddo.
Ma Luciuzza aspettava che la nonna andasse via. Non aveva ancora guardato bene il pezzo di stoffa. Doveva essere tutto a fiori, e ci doveva essere un filo d'oro. Che bel vestito avrebbe fatto alla bambola, quando guariva!
Perché non andava via, la nonna? s'era messa a filare, seduta sulla cassapanca... E zia Pietra che voleva? Voleva avvolgerla nello scialle per rifare il letto? trovare il pezzo di broccato?!
— Oh, Dio, no — supplicò tenendo le manine.
— Ebbene, Pietra, — disse la nonna — perché farla disperare!?
Luciuzza aveva sonno, ma non poteva dormire. Doveva far la guardia al suo tesoro.
— No, no... — supplicò ancora vedendo che Pietra le portava l'uovo fresco.
— Lasciala stare! — comandò la nonna.
Era buona, la nonna, quella sera. Come mai? O perché non era stata sempre così buona?
Scuriva. Veniva Alfio dal Margio. Si sentiva uno scampanìo senza fine. Si sentivano chiudere usci e finestre.
S'era forse addormentata, Luciuzza? Vide la lucerna accesa, riparata dal boccale. La nonna nel letto presso il suo lettuccio. Dormivano tutti. Era notte.
Poteva rivedere il broccato. Ma non riusciva ad alzarsi a metà.
Passava forse il treno sui tetti? E perché le campane suonavano ancora? La nonna era diventata buona e glie lo poteva domandare.
— Nonna, — chiamò — perché suonano le campane?
Ma la nonna non sentiva.
Poteva rivedere il broccato a fiorami...
Chi sa se la mammaranni l'avrebbe rimproverata se le avesse confessato il suo gran segreto?
Doveva fare un abito alla pupa, quando guariva. E se guariva e la facevano tornare a lavorare? Solo mentre era malata le permettevano di giocare...
Essa era malata come la mamma. Ora poteva anche andare in Paradiso... Ci doveva andare con la bambola vestita di broccato. Così San Pietro, vedendola tanto ben vestita, l'avrebbe fatta entrare...
La parete si apriva. Veniva un pagliaccio... quello della fiera. Aveva il viso lungo lungo, bianco bianco, gli occhi incavati... Riempiva tutta la parete.
— Nonna! Nonna!... — chiamò debolmente.
Ma la nonna non sentiva.
All'alba, la nonna trovò Luciuzza mezzo riversa dal letto. Aveva il visino rigato di lacrime: lacrime asciutte come il segno argenteo delle lumachine.
Chiamò la figlia, chiamò il genero.
Luciuzza si raffreddava. La misero sul letto della nonna; era più caldo. Le avvolsero i piedini nel panno di lana... Era tutto inutile... Luciuzza si addormentava per sempre, piano, piano, come quando la sera aveva sonno e non riuscivano a farla cenare...
Quando Pietra disfece il lettino, vide il ritaglio di broccato e trasalì come se le avessero punto il cuore con un ago.
— E pure l'avrei potuta contentare! — pensò. E pianse per la prima volta con vero dolore.
Tolto il lettino, che fu rimandato con la cassetta delle robe in casa del padre, la stanza non restò neanche più grande. Occupava così poco posto, povera Luciuzza!
Presto ogni animo si quietò; ognuno tornò col cuore leggiero alle proprie faccende; perché ognuno aveva la coscienza di avere fatto il possibile per non far soffrire Luciuzza.
Solo, nel cuore di Pietra restò il rimorso – piccolo come la punta di un ago – di non aver contentato la fragile creatura proprio un giorno prima che morisse.
Ma chi poteva prevedere la disgrazia così vicina?
E a poco a poco anche questo piccolo rimorso – che aveva la forma d'un pensiero sgradevole – scomparve del tutto anche dal cuore di Pietra.

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Fonte: Maria Messina - Ragazze Siciliane

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(Michel Houellebecq)
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