L'isola del giorno dopo
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Racconti siciliani: Maria Messina - Rose rosse Empty Racconti siciliani: Maria Messina - Rose rosse

Ven 27 Gen 2023 - 21:05
Racconti siciliani: Maria Messina - Rose rosse Rm5Xf8b

Rose rosse


— Festa grande, donna Bobò?

— Come Dio vuole, donna Mara.

— Son tutti arrivati, i parenti dello sposo?

— Sono arrivati tutti, da Palermo, carichi di regali. Il padre, la madre, la sorella…

— Figuriamo donn'Angela!…

Donna Bobò ammutolì, come se donn'Angela in persona si fosse mostrata per chiamarla. Si meravigliava un poco che la cognata non avesse già interrotto, come sempre, la conversazione con la vicina. Rientrò e chiuse la finestra adagio adagio per non fare rumore. Nel voltarsi, la luce d'argento dello specchio grande la investì tutta. Allora si guardò, timidamente. Ebbe una specie di pietà di se stessa, come se non si fosse mai guardata prima, e pensò, senza amarezza, che la cognata non aveva proprio alcun motivo di sorvegliarla, oramai. Si vide le spalle ad arco, la faccia piena di grinze come una piccola mela dimenticata, il petto più liscio d'una tavola, un po' incavato.

Si scostò dallo specchio, quasi in fretta, e ripigliò a spolverare i mobili del salotto, passando il cencio fra i complicati fogliami delle spalliere, con regolata meticolosità, macchinalmente. Le piccole mani scure si affrettavano, ma il pensiero camminava per proprio conto.

Vedeva, lontano, confuso, un gran chiarore verde. Sempre così le si presentavano alla mente i pochi slegati ricordi dei luoghi non più riveduti: la pergola di Licata, coll'uva immatura, la mamma vestita di nero, lei che ricamava mazzi di rose rosse, dagli steli rigidi come ceri, su una coperta color canarino. La coperta, interminabile, era destinata al suo corredo.

Concetto veniva a trovar la mamma. Sedeva anche lui sotto la pergola e accettava il caffè coi savoiardi fatti in casa. Chiacchierava come un mulino a vento. Ma se per caso la mamma si allontanava, un momentino, lui non parlava più, e lei diventava più rossa delle rose rosse e abbassava gli occhi, un po' lieta, un po' spaurita, di esser sola…

E poi, morta la mamma, chiusa la casa di Licata, era venuta in casa del fratello.

Paese nuovo, gente nuova.

Finito il lutto, dopo un anno di clausura, in mezzo a gente che non conosceva, in mezzo a parenti che non amava, aveva riveduto Concetto. La prima volta fu di mattina (le restava nitido il ricordo), ed era in chiesa. L'aveva scorto, levando gli occhi dal libro, appoggiato a un pilastro, col cappello in mano, dentro un raggio di sole ricolmo di polvere d'oro e d'argento.

Di poi la cognata non la condusse più alla messa delle undici. Non la condusse più a fare la passeggiata sulla via della Niviera, dove lui la seguiva lentamente, in distanza.

— Bobò, tu baderai alle donne che lavano nel cortile.

— Deve venire il fattore: l'aspetterà Bobò.

La chiamavano ancora Bobò. Il tempo passava, e le restava il nomignolo che le avevan dato a Licata, come una breve tiepida carezza. Michelina, la nipotina, la chiamava zia Bobò; ma crescendo la chiamò soltanto zia. E Angela, quando la doveva nominare, diceva: «mia cognata», o pure, se si rivolgeva alla serva, diceva: «la signorina», o pure, «tua sorella», se parlava col marito.

Si seccavano tutti di quel nomignolo da bambina. Una volta Angela disse: — È ridicolo chiamarti ancora Bobò!

Pure nessuno seppe dirle Liboria. Era l'abitudine.

Lei si vergognò di chiamarsi Bobò, col tempo. Ma il nomignolo era attaccato alla sua persona, come la fresca giovinezza che non voleva morire. Sì, aveva capelli troppo morbidi e lunghi, il petto troppo colmo benché lo soffocasse (per pudore), nei corpetti scuri rigidamente abbottonati.

Concetto era venuto a stabilirsi nel paese che lei abitava. Faceva il farmacista. Domandò la mano di lei al fratello, che rifiutò senza interrogarla.

Lei lo seppe dopo. Glie lo disse una serva licenziata.

— Signorina, apra gli occhi! Lei dormirà sempre sola, e la sua dote se la gode donna Michelina!

Ebbene, che fare? Direi: Mi voglio maritare?

Una vampata di sangue le saliva sino alla fronte all'audace, impudico pensiero. Come dire così alla cognata, al fratello?

Però non disse niente. E Concetto passò ogni sera nel vicolo ed Angela chiuse le finestre del vicolo; Concetto andò alla messa delle otto, e passeggiò sullo stradale di Santo Stefano, ed Angela andò alla messa delle cinque e non fece più uscire la cognata; Concetto scrisse tre volte, ed Angela si impossessò dei tre biglietti, pieni di umili ardenti parole, e li lacerò. Fu una lotta sorda, accanita, tra Angela e Concetto.

Una sera il fratello, dopo aver sentito la moglie che non ne poteva più della sua sorveglianza, fece una strapazzata a Bobò: le disse che le femmine si somigliano tutte e basta che vedano un uomo (un vizioso morto di fame qualunque!) per perdere ogni ritegno. Credendo di farle bene, le disse parole brutali. Bobò ascoltò senza fiatare, con la gola stretta: aveva la sensazione di esser messa nuda davanti a tutti, davanti al fratello che la disprezzava, davanti a Michelina che sorrideva…

Così il compito di Angela fu più facile. Ché Bobò non osò più affacciarsi, non osò più uscire. Sperava, sperava sempre, in un prodigio dell'amore, come ne succede nei romanzi e nelle fiabe.

Al farmacista fu detto che Bobò non si voleva maritare, che Bobò si voleva fare monaca di casa.

E il tempo passò lento lento, e cambiò il colore delle cose, come un velo di polvere deforma un balocco abbandonato. I capelli diventarono opachi, il petto si abbassò, gli occhi perdettero il dolce splendore.

Anche Concetto diventò grigio e pesante. Ma non si ammogliò. Non seppe amare un'altra donna come aveva amato Bobò.

Ora Michelina si maritava. La zia le aveva regalato il corredo e la coperta canarina con le rose rosse, ancora vivide e fresche come il suo cuore. Aveva anche firmato una carta, con la quale cedeva le sue possessioni di Licata alla nipotina. Tutto le aveva dato, a poco a poco, e ora le faceva largo, nella vita.

— Per gratitudine… — spiegava la gente.

Per gratitudine, certo… Il fratello le aveva dato una famiglia; Angela era stata la sua sorella più grande, un po' severa ma affezionata…

E Bobò s'era tirata da parte per lasciare passare la sposa, nella vita.

— Che fai in questo benedetto salotto? Non c'è tempo da perdere, oggi. Sbrigati.

— Eccomi — rispose umilmente Bobò svegliandosi.

Era tardi. Lavorò con accanimento fino a sera. Poi vestì la fidanzata, come una bambola viva. Angela da una parte, lei dall'altra, la fidanzata in piedi, un po' pallida e trasognata.

— Questo fiocco non mi piace — esclamò Bobò.

— Perché, di grazia?

— Ha ragione la zia — disse Michelina. — Lasciala fare.

Bisognava che fosse bella, la piccola. Lo sposo veniva da Palermo e aveva gli occhi pieni di donne eleganti. Bobò si dava tutta a quei preparativi, con ardore. Nell'abbigliare la sposa rivelava certe pretese di buon gusto, una specie di grazia civettuola, che non aveva mai avuto.

Poi si preparò a sua volta. Pettinò i capelli in due bande, al solito. Erano, i capelli, ancora fitti e lunghi, ancora indocili al pettine, ma parevano impolverati, con molti fili bianchi. Prese dall'armadio l'abito nuovo. Era, l'abito, color cannella, coi filettini neri, ordinato secondo il piacere di Angela, e mandava lo stesso odore di nuovo, un po' acre, che si respirava nella bottega del pannaiolo. Per questo, per dare aria alla stoffa, spalancò la finestra. Ma scorse i ragazzi aggruppati fuori del portone, che aspettavano il giungere dello sposo, e richiuse.

— Sbrigati! — chiamava Angela. — C'è da far prendere i vassoi!

— Sbrigati! c'è da far portare la lampada nuova in salotto.

Sbrigarsi. Come sempre. Si vestì in fretta, senza guardarsi allo specchio, e lasciò in fretta la camera.

Ordinò alla serva di portare la lampada in salotto; corse in sala da pranzo a disporre i rinfreschi: là i biscotti e i dolci fini, i bicchierini nel vassoio più grande.

Passò Angela, vestita di raso, tutta affaccendata.

— Quando avrai finito, vieni anche tu un momento. È necessario.

Disse: «è necessario», con tono di stizza. Non voleva si mormorasse che teneva la cognata in un canto ora che aveva ottenuto la cessione completa delle terre di Licata.

Bobò trasalì. Si angustiò. Non era abituata a veder gente, a stare in salotto… Ma Angela le ordinava di andare, col suo tono che non ammetteva repliche. Per questo le aveva fatto fare l'abito d'occasione… Bisognava ubbidire. Come sempre.

Scese in salotto. Le tremarono le gambe come fosse stata lei la sposa e fosse aspettata dallo sposo. Le luci, il chiacchiericcio, la sbalordirono. Restò un attimo indecisa sulla porta, riparata dalla tenda pesante a fioroni; poi si fece avanti e si diresse verso il divano dove sedeva la cognata, in mezzo alle invitate, come una regina nel suo trono.

La cognata la presentò alle parenti dello sposo che si degnarono di farle un cenno di testa a pena a pena.

La sorella dello sposo l'osservò curiosamente con l'occhialetto. Era goffa, meschina, rugosa, e Angela la guardava con severità.

È certo — pensò — qualche vecchia zitella che tengono in casa.

Bobò si allontanò, quasi in punta di piedi. Mise in centro la lampada nuova che non faceva sufficiente figura, guardò se ogni cosa fosse a posto, per la sua tenace abitudine di non oziare mai.

Presso il pianoforte chiuso, nero e lucido come una bara, c'era solo, in disparte, un invitato. La guardava. Essa tremò tutta e gli si avvicinò.

Vedeva, in confuso, una chioma grigia, un sorriso stanco.

— Don Concetto!

— Donna Bobò!

Tacquero. Non avevano da chiedersi nulla.

— Quanto tempo!…

— Quanto tempo!…

Bobò aveva il pianto nella gola. I lumi, il susurro, la gente, tutto spariva, lontano, danzando. Aveva l'impressione di essere sola con don Concetto solo, in un punto immenso e deserto, e che dovessero prendersi per la mano. Si guardarono a lungo, con una specie di ansietà.

— Quanto tempo!…

— Quanto tempo!…

L'una vedeva l'altro invecchiato e si doleva, quasi, che gli anni fossero passati soltanto sulla povera persona di lui, incurvandola, devastandola. Gli anni… che avevan tutto sciupato senza rimedio, lasciando fresco e intatto il suo cuore di vergine.

Non la luce sfarzosa dei lumi le riempiva gli occhi, ma bensì la verde chiarità dei ricordi di Licata.

Ma il sereno chiarore sparì d'un tratto, bruscamente, dai suoi occhi estatici, alla voce ben nota, più del solito aspra e bassa.

Seguendo la cognata, in sala da pranzo, camminava leggera e trasognata, come la sposa.

— Sei ridicola! — esclamò la cognata. — Vecchia rimbambita! Non ti vergogni? Prepara il rosolio e mandalo abbasso.

Non le disse: «non venire tu». Ma Bobò non andò, come se Angela glie l'avesse ordinato. Preparò i vassoi, e chiamò le serve perché li portassero in salotto.

— Prima i bicchierini, dopo i dolci…

Andò in camera e si spogliò dell'abito cannella, per non essere tentata a tornare. Sentiva che non doveva tornare, perché ora, sotto lo sguardo ironico di Angela, né lui né lei avrebbero potuto mai più rivivere la dolce ora fuggita.

Si nascose la faccia tra le mani, ma non pianse. Sgomentata vedeva, con precisione, la sua scialba vita di vecchia zitella ancora innamorata.


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Fonte: Maria Messina - Ragazze siciliane

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(Michel Houellebecq)
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