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 Racconti siciliani : Maria Messina - l'ideale infranto  Empty Racconti siciliani : Maria Messina - l'ideale infranto

Ven 8 Dic 2023 - 17:50
 Racconti siciliani : Maria Messina - l'ideale infranto  N97PLPL

L'IDEALE INFRANTO


— Dove ti troverò, mamma, questa sera? — esclamò il professore Sinighella infilandosi il pastrano.
— Ecco — fece la signora Cristina, posando il lavoro. — Sono stata invitata oggi dalla moglie del dottore, ma ho promesso ieri una visita a donn'Amalia Laurato... Vieni da donna Amalia... Sarò pronta e non perderai tempo.
— Sei assidua delle Laurato! Ti piacciono?
— Buonissime. Oh! — si interruppe. — Non dimenticare di impostare!
Immancabilmente, ogni giorno, la signora Cristina Sinighella ripeteva la stessa raccomandazione, con tono vivace; e ogni giorno il professore, con gesto diventato abituale, metteva un paio di lettere e un pacchetto di cartoline illustrate in una delle tasche sempre gonfie di giornali e di carte.
La signora Sinighella, lontana da Palermo per la prima volta in vita sua, cercava di mantenersi legata a ogni parente, a ogni amica, scrivendo lunghe lettere e aspettando – con la premura d'una fanciulla – brevi risposte che pareva le portassero un'eco della cara città lasciata a malincuore.
Oh! più che a malincuore!
Quel primo trasferimento le aveva procurato un senso d'inquietudine quasi più vivo della gioia di sapere il figlio nominato finalmente professore, poi che gli amici, fingendo di compatirla, si erano divertiti a descrivere la noia e i disagi che l'aspettavano nel piccolo paese montano.
— Non c'è neppure la luce elettrica! E non c'è neppure un cinematografo! — dicevano alcuni.
— Le scuole finiscono con la terza ginnasiale e con la terza complementare! — informavano altri. — E la posta parte una volta al giorno! Forse neanche una volta! E giornali non ne giungono quasi mai! Si figuri! senza ferrovia, senza automobili!
Altro che inquietudine!
Però nel luminoso settembre d'oro, la signora Cristina s'era messa in viaggio con la convinzione di compiere un sacrificio più grande delle sue forze; e turbata e triste si era lasciata portare dalla affannata diligenza su su per lo stradale interminabile che, arrampicandosi fra i monti aguzzi e scendendo per le valli nebbiose pareva lasciarsi dietro ogni rumore di attività.
E una volta in paese fu assalita dalla nostalgia. La vista delle straducce mezzo deserte, delle case a due piani, delle donne vestite in colori oscuri, le riuscì intollerabile. Non si lamentò, per non affliggere il figlio, ma pensò alla sua bella casa di via Maqueda, come se non avesse dovuto rivederla mai più.
Pure a poco a poco, senza avvedersene, cominciò a rassegnarsi, e trovò un pochino di svago nella compagnia della padrona di casa – che fece precedere la sua prima visita da un cestello di zibibbo –, la quale, ingegnandosi di far piacere il paese alla sua inquilina, volle farle conoscere le proprie amiche.
Ogni giorno, per qualche tempo, ci fu un nuovo annunzio:
— Venga stasera, perché aspetto donna Clementina. Quella signora che abita la villa accanto al Belvedere — spiegava. — Lei l'avrà certamente notata.
Non l'aveva notata, la signora Cristina, ma per cortesia, asseriva il contrario.
— La villa con due leoni sul cancello — rincalzava l'altra tutta lieta. — Lei forse la confonde con la casina di don Nele che ha il cancello grigio.
— Capisco. La villa coi leoni. Sì, ho piacere di conoscere la signora... la signora...
— Donna Clementina.
Per la padrona di casa bastava dire donna Clementina o donna Sofia o «la baronessa vecchia». Le conosceva fin dalla nascita e non pensava neanche che i loro casati potessero riuscire nuovi a qualcuno. Non le era ancora successo di trattare con forestieri, con gente estranea alla vita del paese!
La signora Sinighella replicava:
— Donna Clementina... è il nome, ma...
— Ecco. Era la figlia unica del barone Barbarella, quello che sposò donna Teresina da Siracusa. Una bellezza, l'avesse vista! Una regina! Una figura da mettersi in quadro!
— Perciò: figlia del barone e di donna Teresina?
— Appunto.
— E adesso?
— È la moglie di un riccone: il padrone del feudo della «Montagnola».
— Ma questo signore...
— Un vero galantuomo! Don Raimondo di Santavenera... Chi non lo conosce? Hanno un solo figlio, che studia in casa e si prepara per gli esami della prima ginnasiale. Per questo vogliono fare amicizia con lei... — spiegava ingenuamente.
Così la «madre del professore» conobbe quasi tutte le signore del paese.
Pure le prime visite, annunziate solennemente una settimana prima, le fecero malinconia: ché le visitatrici, restando immobili e zitte, senza alcun desiderio di rompere i lunghi e diffidenti silenzi, le ricordavano le pietose visite di condoglianze, ricevute alcuni anni prima.
Ma a poco a poco le nuove conoscenti ebbero stima e confidenza nella «forestiera» e cominciarono a mostrarsi così schiette ed affettuose, come veramente erano.
Buone creature che, senza saperlo, chetarono la pena del rimpianto nel cuore della signora Cristina, la quale, continuando a scrivere alle amiche ed ai parenti, non manifestò più la stessa impazienza di tornare a Palermo.
È così dolce la vita quando sentiamo l'aria vivificata da un po' d'affetto sincero!
E sebbene ogni famiglia pareva fare a gara con le altre nel prodigarle cortesie, la signora Cristina preferì l'amicizia veramente disinteressata delle mamme che non avevano bambini da mandare al ginnasio...
Andava volentieri specialmente in casa Laurato. Adagiandosi in una intimità familiare, così schietta come non l'aveva mai trovata fra le sue amiche palermitane, cominciò a godere le tranquille serate da passare accanto al fuoco, tra due brune ragazze, lavorando e chiacchierando solo se ne aveva voglia, discorrendo di cucina, di calze, di minuti avvenimenti: placide conversazioni ravvivate dal cicaleccio della piccola Marina, interrotte da lunghe pause che davano allo spirito una specie di riposo torpido e piacevole.
Il figlio veniva a riprenderla verso le otto. Le ragazze arrossivano, udendo picchiare; donn'Amalia guardava la Sinighella con aria mezzo mortificata, mentre il servo andava ad aprire.
Essa non osava fare entrare il giovanotto nella stanza da pranzo, in mezzo alle donne, e nello stesso tempo soffriva a doverlo fare restare in anticamera o nel freddo salotto.
Quando la signora Cristina comprese il motivo dell'imbarazzo, vi riparò con garbo facendosi trovare pronta, alle otto, col lavoro nella borsa e la sciarpa in capo.
E poi comprese quanto fosse necessario che egli restasse lontano dalle ragazze!
Per tutte egli era il «forestiero», il «palermitano», il giovanotto più elegante del paese; colui che le fanciulle più temevano e più desideravano di incontrare: una specie di tentazione, insomma...
La domenica, uscendo dalla messa cantata, se l'additavano ammiccandosi: le più ardite salutavano con un cenno impercettibile, le altre non rispondevano affatto al saluto, passando con lo sguardo a terra, chiuse nello scialle nero, rosse come chicchi di melagrana.
Intravedendolo così, sulla porta della chiesa o alla passeggiata del Belvedere, ciascuna se lo figurava a suo modo. E riunendosi in molte, nei lunghi pomeriggi piovosi, evitavano di parlarne o gli alludevano timidamente, perché ciascuna teneva per sé una sua secreta gioconda illusione sul giovane forestiero e temeva di manifestarla alle compagne.
La signora Cristina, pur sorridendo un po' commossa dei turbamenti che nascevano spontaneamente in mezzo alla gioventù femminile, qualche volta pensava con materna tenerezza alle sue piccole amiche. Sofia, Carmelina, Lucietta...: volti pensosi, occhi ora appassionati ora birichini, cuori devoti... Sì, una di quelle fanciulle, cresciute nell'ombra calda delle quattro pareti, fresche e pure come fiori non toccati, avrebbe potuto diventare la sua nuora...
Ma noi non possiamo andare contro il nostro destino...
Ogni sera, mettendosi a letto, la signora Cristina diceva al figlio, che dormiva nella stanza accanto:
— Che buona gente, non è vero?
— Oh! buonissima gente! — rispondeva il figlio.
— Da quando siamo qui non ho più comprato né olio, né frutta, né caffè...
— Curiosi!
E così manifestando un loro piacevole stupore si davano la buona notte, senza spezzare il filo dei pensieri: il figlio pensava un bel viso giovanile, pallido del pallore palermitano caldo e un po' fosco; la madre pensava confusamente alla credenza ricca di olio e di miele, all'avvenire del figlio, alla casa di via Maqueda...
E in altre case, anch'esse buie e silenziose, qualche fanciulla, nel dormiveglia, rivedeva senza arrossire l'indecisa figura del professore Sinighella; e qualche madre sognava che la figlia maggiore era promessa sposa...
— Le feste di Natale — concluse donn'Amalia infilando una maglia, — son feste che si passano in famiglia!
— Gran bella cosa avere i parenti vicini! — esclamò la signora Cristina. — È la prima volta che noi passeremo il Natale soli soli. E però aspetto queste feste con tristezza.
Donn'Amalia la invitò:
— Lei è come una parente per noi! Vede... anche suo figlio... la sera di Natale... potrà venire. Ci saranno i miei uomini e non resterà solo.
Marina, l'ultima bimba, quella che portava ancora i capelli legati con un nastro, fece giocherellando coll'uncinetto: — Io vorrei divertirmi assai!
— Oh! ti divertirai! — disse Stella. — Faremo la tombola!
— E il presepe! — aggiunse donn'Amalia.
— Ma lei? — esclamò Lucietta, la maggiore delle tre sorelle. — Non le piacerebbe di più andare a Palermo?
— Abbiamo quattro giorni di vacanza e ce ne vogliono due per andare e tornare. Certo, mi sarebbe piaciuto! Non tanto per me quanto per mio figlio.
— Ha molti amici?
— Chi? Mio figlio? Più che amici, cara mia!
La signora Cristina pensava che le Laurato avessero capito da un pezzo.
Aggiunse, con tono malizioso:
— Quando si lascia il cuore... capirai...
Lucietta sgranò gli occhi, piena di curiosità e di timore, ma non osò chiedere altro. Donna Amalia disse con voce un po' arrochita:
— Perché, suo figlio...
— È fidanzato. Non glie l'avevo detto?
Lucietta diventò pallida, mentre Marina la guardava con i suoi occhi neri e profondi di bimba che sente anche le cose che ignora.
La signora Cristina ammutolì, imbarazzata, quasi che si fosse lasciata sfuggire una scorrettezza. Parve che un soffio d'aria gelata le avesse tutte intirizzite.
Donn'Amalia, da donna prudente, allontanò per la prima il fastidioso silenzio, sbraciando il caldano.
— Che brace cattiva!
Lucietta non più pallida (ah! quel prepotente rossore che scende fino alla nuca, che fa lacrimare gli occhi!) si alzò con la scusa di guardare se pioveva; e Marina, seguendola, le afferrò una mano con grazia infantile che sapeva di pietà materna. Stella abbassò gli occhi sul lavoro e non li alzò più.
La serata fu interminabile.
A pena il professore picchiò, la signora Sinighella mise la sciarpa, come sollevata da un peso. Cercò di salutare con più cordialità del solito; donna Amalia l'accompagnò fino al portone: tutte e due si fecero grandi complimenti col tono di chi vuole farsi scusare una mancanza irreparabile.
— Non vorrei essere una intrusa fra di loro che son tutti parenti... — mormorò la signora Cristina.
— Come vuole — rispose donn'Amalia. — Ci vedremo dopo le feste, dunque?
— Sì, dopo le feste. Tanti auguri!
— Tanti auguri.
Dopo il Natale (un triste Natale, di solitudine, di nostalgia, di speranze) la signora Cristina trovò la famiglia Laurato cambiata, e così altre.
Fedeli rimasero soltanto le famiglie nelle quali c'erano ragazzi da mandare al ginnasio...
La credenza fu meno ricca, l'olio venne risparmiato. E il professore Sinighella diventò l'ideale infranto di tutte le signorine del paese, che, riunendosi in molte nei lunghi pomeriggi piovosi, evitarono affatto di parlare del «forestiero», perché ciascuna celava una sua secreta malinconica disfatta e temeva di farla conoscere alle compagne.

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Fonte: Maria Messina - Ragazze siciliane

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(Michel Houellebecq)
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