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Racconti siciliani : Maria Messina - Il telaio di Caterina  Empty Racconti siciliani : Maria Messina - Il telaio di Caterina

Sab 28 Ott 2023 - 18:01
Racconti siciliani : Maria Messina - Il telaio di Caterina  JKOybjv

Il telaio di Caterina


Le due sorelle, rimaste orfane, si sentirono bruscamente sole come bimbe che si tengon per mano in una stanza al buio.
Le zie, un po' per amore del fratello e più per un senso di pietà verso le nipoti, vollero restare.
Zia Vanna disse per la prima:
— Con che cuore potrò lasciare Marietta?
— Ed io — sospirò zia Fifì, — come posso abbandonare Caterina, in questi momenti?
Ognuna, nel lungo tempo passato curando invano la povera cognata, si era lasciata prendere da una particolare tenerezza.
Caterina e Marietta si attaccarono più tenacemente l'una all'altra. L'una non usciva dalla camera se l'altra si sentiva poco bene, l'una smetteva di parlare se l'altra corrugava un po' la fronte, afferrata dai dolorosi ricordi. Dormivano insieme, in due bianchi lettini e avevano l'abitudine di chiamarsi, a pena coricate.
— Caterina!
— Marietta!
Non si sarebbero addormentate, senza salutarsi così.
Si somigliavano anche. Solo, Caterina pareva più forte; Marietta era più gracile. Per questo zia Vanna aveva molte cure per la sua prediletta. In casa era convenuto, e non nascevano gelosie se a colazione Mariettina sorbiva un paio d'uova mentre l'altra si contentava d'una frutta o d'un pezzetto di cacio fresco; o se, uscendo nel cortile zia Vanna seguiva Marietta con uno scialle pronto fra le mani. Aveva preso un po' di tosse, che non se ne voleva andare.
Una sera, nel salire per la prima volta dopo i due anni di lutto su alla «Crocetta», furono seguite da un giovanotto che pareva un forestiero, forse un palermitano.
Zia Vanna esclamò compiaciuta:
— Quel maleducato guarda Mariettina...
Zia Fifì affermò sorridendo:
— No. È per Caterina.
Le ragazze, a casa, si fecero tenui confidenze:
— Sai... ho visto che ti osservava.
— A me è parso invece, che guardasse te...
— Si è fermato sotto l'arco...
— Per te...
Furono liete. E aiutando la serva a rifare i letti, cucendo dietro la finestra ancora socchiusa, sorrisero, smemorate, ciascuna per sé, al viso dello sconosciuto che le aveva guardate. Uscendo lo incontrarono ancora: certamente gli doveva piacere Marietta, poiché guardava lei sola con occhi illuminati dalla simpatia. Non c'era dubbio...
Caterina restò un po' delusa; ma le parve naturale anche questa preferenza, così come ogni attenzione particolare delle zie e del padre era rivolta alla sorella più gracile.
Marietta, un giorno, tossicchiava più spesso, e zia Vanna non le permise di uscire.
La fanciulla ne pianse:
— Credi che sia malata? Da tanto tempo ho questa stupida tosse che mi dà noia!
Zia Vanna fu inesorabile. Allora Marietta propose alla sorella:
— Esci almeno tu...
C'era nella voce, un leggero tono di stizza. Caterina rispose gaiamente:
— Perché? Preferisco tenerti compagnia.
Né l'una né l'altra temette che la clausura dovesse ricominciare. Marietta si mise a letto in camera di zia Vanna, dove c'era più aria; fu chiamato il dottore Saitta, che aveva curato la mamma; e la nuova stanza della piccola fu tenuta in penombra, tutta odorante di trementina, come era stata tenuta – per tanti mesi – la camera della mamma.
Caterina – che fu lasciata entrare di rado, – si fermava tutta sbigottita nel corridoio, spiando ogni rumore, cogliendo ogni parola, supplicando che la lasciassero accanto al lettino della malata.
Fu un ripetersi di tristi giorni lontani, un eterno incubo sospeso nell'aria, che finì piano piano.
Una sera l'aroma di trementina fu velato da un acre odore di fiori freschi e di ceri accesi, e dalle finestre spalancate giunse un lento angoscioso dondolìo di campane a morto... Così, piano piano, se ne andò Marietta.
Per Caterina fu uno schianto di cuore più grosso di quando morì la mamma. Non pianse. Come si fece il consòlo, e lei vi assisté, chiusa e infreddolita nel grande scialle nero, fra le zie che singhiozzavano, non pianse e non tacque. Parlò febbrilmente, dilatando i grandi occhi sbigottiti; parlò, come se la sorella fosse ancora di là, nell'altra stanza.
Le visitatrici si stupirono, credendo che il suo dolore fosse troppo piccolo. Ma il padre, dal suo cantuccio, la fissava inquieto; e le zie, a pena potevano, le bisbigliavano stringendole una mano:
— Coraggio... Sfoga... Piangi... Sarà meglio.
Dopo i tre giorni del consòlo la casa tornò in lutto: le finestre tutte serrate, socchiuse solo quelle che davano nel cortile. Sebbene fosse di settembre, la serva preparò i caldani, tanto le stanze restarono fredde.
Caterina pianse finalmente, la prima volta che rimise piede nella stanza da lavoro. Pianse finalmente, vedendosi seduta davanti a un posto che sarebbe rimasto sempre vuoto. Singhiozzò ritrovando nel cestino il cucito di Marietta.
Poi si calmò. Andò per casa raccogliendo tutto ciò che era appartenuto a Marietta: ogni lavoro abbandonato che nessuno avrebbe mai più ripreso; ogni oggetto: perfino la borsa, il libro da messa, il ditale. Per tutto si affacciava qualche cosa: qua c'era appeso un grembiule; lì c'era il pettine di tartaruga. Nel letto aveva portato i capelli tirati sulla fronte ed era sembrata di nuovo bambina...
Ogni oggetto un ricordo; ogni ricordo uno spasimo. La «loro» camera diventò un reliquiario: i ritratti della sorella, che sorrideva dolcemente, da diverse cornici, furono infiorati di crisantemi e di semprevivi.
Non volle che si mutasse la disposizione dei mobili.
Il lettino? Doveva restare al suo posto. Le zie dovevano continuare a dormire di là, nella stanza vicina, come «prima».
Zia Fifì arrischiò timidamente, con zia Vanna:
— Potrebbe aver paura, svegliandosi. Quel lettino vuoto...
Lei sentì. Sentiva tutto, col suo udito fine fine.
— Paura? Paura di Marietta! Cara adorata! Magari potessi rivederla! Una volta sola!
E coricandosi sospirò:
— Mariettina... anima dell'anima mia...
Il cuore doleva a chiamare chi non avrebbe risposto; e si addormentava singhiozzando sotto le coperte per non farsi sentire da zia Fifì.
Pensava che si va e si va... e pare sempre che si debba aspettare qualche avvenimento bello, e che la vita debba durare infinita; e ognuno si sente necessario agli altri e poi all'improvviso tutto finisce: si spezzano gli affetti, i sogni, le speranze che parevano grandi e la vita di chi resta ripiglia il suo corso immutabile...
Anche nella loro casa tornavano, come servi umili e silenziosi, le vecchie abitudini a pena a pena modificate. Veniva, di rado, qualche vicina o qualche parente che si univa a parlare della morta, ravvivando piccoli ricordi con cantilena.
Col tempo ricominciò a venire zio Raimondo, di sera, per fare, come prima, la solita scopa col fratello, avviando interminabili partite, durante le quali non si udiva se non il monotono «te e te», «te e te» bisbigliato da chi faceva carte.
Zio Raimondo era l'oracolo di casa: non prendevano risoluzione né scioglievano quistione di famiglia senza aver sentito il suo parere; lo stesso don Tano si era sempre rimesso alla volontà del fratello. Però egli, che aveva la coscienza della sua superiorità, non apriva mai bocca per dire cose inutili. Non somigliava a don Tano che tante volte, per divagare le donne, raccontava qualche insignificante avvenimento occorso in paese:
— Il cavaliere Dara ha fatto venire un pianoforte, da fuori...
Nessuno rispondeva alla sua voce un po' timida.
Caterina, assorta nel lavoro, presa dal vago fluttuare di vari pensieri, non desiderava rompere il letargico silenzio che le circondava l'anima. Ricamava, anche di sera, quadri da offrire alla sorella. Sul fondo di raso color lavagna tracciava un'agile ghirlanda che doveva contenere uno dei ritrattini di Marietta.
All'alba si metteva al lavoro, e a pena desinato andava a vedere l'effetto di un boccio o di una foglia abbozzata nel mattino. Perfezionandosi a ricamare strani fiori con tutte le sfumature del grigio e del cenere, viveva per i tristi pazienti lavori, amati come cose vive.
Zia Fifì osservava la nipote curva sul telaio:
— Se ne va come l'altra! — diceva a zia Vanna. — E a noi resteranno gli occhi per piangere... Quel povero Tano, poi...
— Potessimo divagarla un poco... Potessimo farle respirare un boccone d'aria...
— Io la condurrei in campagna addirittura.
— In villeggiatura?! E ci pensi ai pettegolezzi della gente? Neanche sei mesi che la buon'anima...
— Neanche sei mesi... — ripeteva zia Fifì. — Ma Caterina così non la dura.
— Raimondo dovrebbe condurre sua figlia!
E zio Raimondo una sera condusse Nenè, che era tornata da poco dall'Istituto Maria Adelaide. Ma Nenè si annoiava: chiacchierò, fece della maldicenza, prima allegramente, poi con tono pungente, mentre Caterina restava assorta con le mani unite sulle ginocchia.
Forse non l'ascoltava neanche.
No, Nenè non poteva compatire quella sua povera cugina!
Pure tornò, l'indomani, assieme alla signora Teta Picci, una forestiera vestita d'una lunga giacca di velluto nero che la faceva parere un uomo.
— È la moglie del professore d'italiano — spiegò a zia Fifì, mentre zia Vanna, tutta confusa, si dava da fare intorno alla visitatrice. — È un po' bizzarra, ma ha un cuore grande come il mare.
Caterina guardava con curiosità e con diffidenza la nuova venuta. Aveva due cernecchi grigi sulla fronte e mani magrissime sempre in movimento; chiacchierava con vivacità, senza ripigliare fiato, replicando da sé ai propri argomenti: parlava di gente conosciuta a Milano, incontrata a Firenze, descrivendo con una frase, con un aggettivo che colorivano luoghi e persone. Si interrompeva per esclamare:
— Ma loro non escono mai?... Bene, bene... lo so.
Oppure:
— Dovrebbero scuotersi!
Ma non aspettava risposta e continuava le sue chiacchiere. Zia Fifì si accorgeva che la curiosità di Caterina diventava quasi gioconda e ne fu grata alla sconosciuta. Volle accompagnarla lei, e mentre Zia Vanna faceva lume sul pianerottolo e Nenè andava avanti, seguì la forestiera, le afferrò le due mani, pregando:
— Senta... venga qualche volta... Siamo così sole!
— Verrò... Tornerò...
E la signora uscì svelta svelta, mentre zia Fifì rifaceva le scale aggrappandosi al ferro e sostando ad ogni scalino per l'affanno che le mordeva il cuore.
Zia Fifì temeva di non rivedere più la forestiera.
— Una signora come quella, che viene dal continente che ha letto e viaggiato, si annoia — esclamava di tanto in tanto, — fra noi che non sappiamo dire niente!
Ma la signora Teta ritornò, senza la compagnia di Nenè.
Zia Fifì che andò ad aprire, le fece festa:
— Caterina!... Vanna!... — chiamò.
Nella piccola stanza da lavoro fu un allegro smuoversi di seggiole, un vivace parlottare:
— Che fortuna, che fortuna...
C'era anche don Tano; e fratello e sorelle guardavano la signora Teta con trepidante ammirazione, come se questa portasse la gioia per la loro Caterina. Avevano poca voglia di chiacchierare, ma cercarono tutte le maniere di mostrarsi riconoscenti: le offrirono del caffè, della conserva di frutta; poi Caterina mostrò il telaio.
La signora Teta rimase perplessa.
— Bene, bene... — esclamò agitando le mani. — Io non ho mai lavorato a telaio... Ma me ne intendo...
La condusse nel salottino tutto chiuso mezzo al buio, dove si respirava un pesante odore di muffa e di fiori appassiti.
Alla poca luce d'una imposta aperta si mostrò un ritratto, grande e chiaro, che occupava tutta una parete.
— Vede? È il più bello. Farò anche a questo una ghirlanda di crisantemi. Ma sarà lavoro un po' lungo.
La signora Teta ascoltava, ammutolita. Poi esclamò, evitando di guardare la figura del ritratto, che pareva staccarsi, tutto chiaro, dal buio:
— Bene, bene... Ma non è il salotto, questo? La stanza degli amici?
— Sì. E perciò? È in ogni stanza.
La condusse in camera a vedere altri due ritratti riparati da un velo. Sollevò il velo per mostrare le ghirlande senza colore, pazientemente ricamate.
— Bene, bene... — esclamò la signora Teta, tornando nella stanza da lavoro. — Lei si ammalerà. Non può vivere così! Ci vuol altro! Dev'essere molto giovane, lei! No?! — continuò crollando la testa con aria scontenta e impaziente. — Anch'io ho perduto la mamma, le sorelle... uno zio carissimo... tante amiche... Ho un cimitero, nel fondo del cuore! Ma sul cuore no!... Sul cuore ho seminato la vita. Mi son fatta forza! Poi ho pensato a maritarmi... Ho girato di qua e di là!... La giovinezza aveva i suoi diritti! La muffa non si attacca sul nuovo, ma sul vecchio!
Caterina si dolse di quelle espressioni che offendevano la memoria della sorella, che le ferivano le orecchie come tante note troppo acute. Si pentì di avere mostrato i suoi lavori e, stancata, si propose di non voler vedere più l'intrusa.
Ma la signora Teta ritornò l'indomani, venne ogni giorno alla stessa ora vincendo, a poco a poco, la diffidenza della fanciulla e quella, più sorda, di zia Vanna.
Conosceva mezzo paese ed era sempre carica di commissioni e di obblighi: doveva portare un libro alla baronessina; era aspettata da donna Menicuccia che aveva il bambino malato; doveva impostare una lettera di don Cesare che non poteva uscire...
— Quando posso rendermi utile a qualcuno sono felice! — ripeteva con entusiasmo. — Così penso di meno ai miei guai!
Insisteva perché facessero uscire Caterina:
— Una bella camminata al sole!
— Ma scherza! Non è ancora passato un anno! — faceva zia Vanna giungendo le mani.
— Allora niente sole! Al chiaro di luna! La gente non vedrà. Diano uno scialle anche a me. Nessuno penserà che la signora Teta si sia imbacuccata nello scialle!
Le vecchie sorridevano alla matta proposta. Non avrebbero mai fatto uscire la nipote, né l'avrebbero mai lasciata andare sola con una forestiera!
Pure una sera si persuasero: risero di cuore e andarono a chiamare don Tano per fargli vedere la signora Teta con lo scialle.
— Vadano per il Sinibbio, mi raccomando!
— E tu, Caterina, non aprire bocca finché sarete dentro il paese! Qualcuno può riconoscere la voce!
La fanciulla si attaccò al braccio della sua accompagnatrice. Spaventandosi se incontrava facce conosciute, tirandosi lo scialle sugli occhi nel passare sotto un lampione, uscì nello stradale.
C'era la luna tonda che s'affacciava dai pioppi; le rane gracidavano nel pantano; lontano abbaiava un cane.
Primavera era nell'aria. Caterina respirò avidamente.
— Ti ammalerai! — ripeteva la signora Teta. — Non capisci che hai bisogno di vivere?
Caterina pareva svegliarsi.
— Un bel giovanotto ci vuole!
— Oh! — esclamava Caterina, ritirando il braccio, quasi offesa.
Taceva. Ma l'ora e il luogo le infondevano uno struggente bisogno di aprire il suo cuore.
— Vede — mormorava, — mi pare, certe volte, che l'anima mia sia bigia, che tutto, intorno a me, sia bigio. Lei si meraviglia ch'io conosca ogni sfumatura del grigio? Io non amo più gli altri colori. Se vedo delle persone vestite di chiaro, la mia vista si deve assuefare, come a una luce troppo accesa. Io non penso di lasciare il bruno. L'ho dentro l'anima. Non vede la nostra casa? Non le pare buia? Scappano tutti. Anche Nenè non è più venuta...
— Nenè ha ragione — ripigliava. — Si annoia a stare con me che non so dire niente, che vivo in una casa di vecchi, ricordando la piccola adorata...
— Bene, bene — interrompeva la signora Teta. — Malinconie da ragazze...
L'impaziente esclamazione, rompeva il mesto incanto. Caterina ammutoliva di nuovo, sospirando, pentita di aver parlato di se stessa.
Ma la vecchia signora, – che si era proposta di divagare Caterina, di farle del bene a tutti i costi – andava diritto al suo scopo, senza curarsi dei dolci sfoghi e degli improvvisi ostinati silenzi.
Ogni sera si toglieva il cappello per avvolgersi nello scialle, e faceva trottare la sua protetta verso il Sinibbio.
— Ma non so, perché dobbiamo fuggire la gente a questo modo! — borbottava con zia Fifì. — Come se lo scialle, che mi leva il respiro, non bastasse!
Poi aggiungeva:
— Un tesoro, sua nipote! Ma è malata. Se fossi uomo la sposerei sui due piedi e la farei viaggiare per l'Italia!
Zia Fifì sorrideva.
— Grazie! Grazie! Comincia a stare meglio. La passeggiata della sera la fa cenare con appetito! E lavora di meno intorno a quel benedetto telaio!
Un giorno la signora Teta si presentò con aria misteriosa e fece segno che doveva dire qualche cosa in gran segretezza.
Come Caterina fu mandata a preparare il caffè, le due sorelle si strinsero intorno alla signora Teta, che tormentando la catenina d'oro degli occhiali, mandando indietro i due cernecchi grigi, fece la sua confidenza.
Le vecchie si fecero attonite.
— Non ci sarà occasione migliore. Un giovane serio, che promette molto. Ha la famiglia a Verona. S'informino della famiglia Pavonetti, di Verona.
— Noi abbiamo un nipote militare, da quelle parti — rammentò zia Fifì. — Possiamo scrivere.
— Ma un impiegato, come suo marito!... — interruppe zia Vanna. — Un forestiero! ... Andrà di qua e di là!...
— Oh! vedrà l'Italia! Deve dunque vegetare sempre in questa bicocca, peggio d'un fungo? E poi lui potrà stabilirsi a Palermo, a Messina, dove vogliono... Si farà avanti. Mio marito gli vuol bene come a un figliolo. Ma la vuole conoscere, ripeto. Capirà!...
Le vecchie si guardarono perplesse.
— Conoscerla! Dirle, chiaro e tondo, che un giovanotto la vuole... Metterle in testa delle idee?... E se poi non si farà niente?
— Si farà. Il giovane è serio. E che! Ne parlerei così se non lo stimassi?
Lo dissero a don Tano che si confuse:
— Per l'amor suo... certo!... Ma ci dobbiamo consigliare con Raimondo.
Don Raimondo aveva conosciuto il professore Pavonetti al Casino. Altro se era un buon partito! Ma era giusto prendere delle precauzioni, informarsi.
E don Raimondo scrisse e riscrisse. Presto poteron sapere che il Pavonetti, di famiglia che a Verona godeva la stima di tutti, era giovane intelligente e onesto.
— E Caterina?
A Caterina ne parlò zia Vanna.
— Sai... Un giovanotto per bene... Una vera fortuna... Anche zio Raimondo lo dice.
— Ma se non mi ha mai veduta? Se io non l'ho mai veduto?
— Vi conoscerete!...
— E dove?
Dove?! Non ci aveva pensato nessuno! In casa non era da proporre, neanche per ridere: se il fidanzamento non avveniva come giustificare la visita di un forestiero?
— Potrebbe venire di sera... sul tardi... — propose zia Fifì timidamente.
— Di contrabbando?... In casa nostra?... Hai perduto la testa?
— Qui ci vuole una casa neutrale — fece zio Raimondo interpellato.
— Giusto! — ripeté don Tano. — Una casa neutrale.
— Ma... — interruppe zia Vanna.
— Adagio! Andiamo per ordine — cominciò don Raimondo stendendo le mani come a scansare un invisibile inciampo. — Ecco. In casa mia non darebbe nell'occhio perché molte volte, qualche amico forestiero, viene a vedere la mia raccolta di francobolli. Io lo invito con questa scusa. Tu — aggiunse rivolgendosi al fratello, — tu ti farai trovare in salotto con tua figlia. Ci sarà Nenè, mia moglie... Avrete agio di conoscervi. Naturalmente ognuno di noi farà come se non sapesse... Un incontro fortuito... Poi, quando lui avrà manifestato le sue impressioni al marito della signora Picci, sarà il caso di decidere.
— Eh! — sospirò zia Vanna. La questione più intricata, sotto l'occhio di Raimondo diventa un indovinello da bambini!
Ma Caterina si sgomentò. Non era mai uscita – fuori che poche volte, di sera, per i campi, con la signora Teta; non vedeva gente nuova da tanto tempo... E ora doveva andare in casa dello zio per conoscere un uomo... E conoscerlo, poi, per... No! No!
Zia Fifì, vedendo l'avvenire della sua prediletta in una luce di felicità, insisteva.
La signora Teta messa a parte di tutto, si entusiasmò, come quando c'era da fare del bene.
— Dici di no? Sciocchina! Lo sai te che vai per conoscere il Pavonetti! È come se gli altri non lo sapessero, capisci? Che cosa più naturale di una visita agli zii? Lui? Lui penserà che tu non sai... Il salotto? O perché? Non è possibile trovarsi in salotto? Che sciocchezze!... Su, da brava! Pensa piuttosto a farti bella, domani sera!...
Ma Caterina, invece di farsi bella si inginocchiò a pregare che la sua mente fosse illuminata. Poi volle pregare anche la sorella morta. I ricordi sorgevano, mesti e confusi, come voci lontane senza eco, come profumo di rose appassite. Pensava che il tempo scorre; scorre e pare sempre lo stesso. E anche la gente s'affretta. E qualcuno si arresta sul più bello; cade; altra gente sopraggiunge e va, senza guardarsi indietro. E i morti... Oh! come sono dimenticati i morti! Eppure a ognuno pare che la vita debba durare infinita. Anche Marietta aveva sognato e aspettato. E lei, Caterina, aveva giurato di non dimenticarla mai; e pure, da qualche mese per la frivola compagnia d'una intrusa, si era quasi allontanata dalla memoria della povera piccola!
Ma essa le sorrideva, dolcemente, senza rancore. La rivide, a traverso un velo di lacrime. Mormorò:
— Proprio mi perdoni?
Ricordò il viso dello sconosciuto che aveva guardato sua sorella, fermandosi sotto l'arco.
Certo se fosse vissuta...
Ora le diceva, col mesto sorriso:
— Vivi tu che sei restata. Forse è l'amore...
Caterina si levò dalla preghiera, senza aver pregato.
A stasera, pensava. E arrossiva di faccia ai suoi nudi pensieri. Che voglia di sole e di aria libera! Stasera!
Bello, brutto? Biondo, bruno?
Era qualcuno. Qualcuno che la voleva, che aveva guardato anche Marietta in una sera lontana.
Era l'amore, misterioso e potente, che l'avrebbe chiamata.
Zia Fifì pettinò la fanciulla. Poi prese l'abito buono, quello stesso che le avevano fatto per il bruno della madre.
La gonna era un po' ampia, le maniche troppo corte, il corpetto troppo largo faceva due grinze sulle spalle.
— Non c'è male — concluse zia Vanna.
Il cappello? Uscire per la prima volta col cappello? S'imbacuccò nello scialle e aspettò che suonassero le otto. Il padre, col pastrano nuovo, passeggiava lentamente nel corridoio. Le zie parlavano sottovoce.
Aspettavano, come chi aspetta la partenza verso un luogo ignoto e lontano.
Caterina ebbe un brivido di freddo. Nell'ora malinconica fu pentita di avere risposto di sì.
Udì la voce del padre: — Andiamo.
Anche le zie si alzarono, pesantemente, per accompagnarli fino alla porta.
— Avanti! Favorisca!
— Il professore Pavonetti... mia moglie, mia figlia. Mio fratello Gaetano Fàvara, mia nipote Caterina Fàvara.
Sedettero tutti in circolo, un po' imbarazzati. Don Tano guardò il fratello come per dirgli: — Comincia tu!
E don Raimondo, saggio e compiacente, avviò la conversazione. Cercò una positura comoda, si dette un colpettino sui ginocchi per farne saltar via un peluzzo, e poi domandò guardando la scatola dei francobolli preparata su un tavolino:
— Dunque, lei è qui da poco tempo?
— Da tre mesi.
— Vi si trova maluccio, abituato nei grandi centri!
— Finora, veramente! Ma spero di trovarmi bene in avvenire! — rispose il professore guardando Caterina.
— E poi andrà lontano? — continuò don Raimondo.
— Secondo. Passando al liceo potrò anche stabilirmi a Palermo.
E si mise a parlare di esami, di concorsi, di titoli e di pubblicazioni, annunciando che lui preparava uno studio sulla «riforma dell'educazione».
Caterina non ascoltava. Sentiva su di sé gli occhi dello sconosciuto che l'esaminava freddamente, senza simpatia e senza indulgenza.
Pensava allo scopo dell'incontro e arrossiva. Si vide le braccia lunghe nelle maniche troppo corte; le parve di avere un petto enorme, un corpo enorme. Provò una specie di vergogna nel sentirsi lì, in quel salotto, esposta allo sguardo di uno sconosciuto che l'osservava per poi fare le sue considerazioni col marito della signora Teta.
Nenè parlava animatamente:
— Palermo? Sì, ci sono stata sei anni. Ma in Convitto, si figuri! Il foro Italico?... Oh!... Tornarci? Magari! Non sogno altro!
Caterina soffriva di meno, allorché la cugina richiamava l'attenzione del professore. Ma come gli occhi di quell'uomo, che non le aveva ancora rivolto la parola, si tornavano a posare freddamente sulla sua persona, la riafferrava l'angoscia e la vergogna.
Perché era venuta a rappresentare una parte nella commedia? Sentì un acuto disgusto di sé e di coloro che la circondavano.
Avrebbe dovuto essere quello il suo fidanzato? Perché? Un uomo qualunque...
Non colui che aveva sognato sulla via del Sinibbio, nel voluttuoso tepore primaverile.
No. No.
Ma perché restare?
Le domandavano qualche cosa.
— No, grazie — rispose distratta, senza rivolgersi ad alcuno.
— Il professore ti domanda se ti piace viaggiare.
— Viaggiare? — ripeté, confusa e impacciata. — Credo che mi piacerebbe. Non ho mai viaggiato.
Doveva essere ben goffa in quel cantuccio di divano. Poteva mai interessare quell'uomo? No, non l'avrebbe mai interessato. Non avrebbe mai interessato qualcuno.
La testa le martellava; era come chi va su un carretto, di notte, e vede a stento dinanzi a sé, scosso, a tratti, da un brutale sobbalzo sui ciottoli ineguali.
Da quanto tempo soffriva così?
Guardò il padre per dirgli: — Andiamo! — con un segno. Ma il padre era tutto assorto, con la consueta espressione di bonarietà, a studiare il suo futuro genero.
Fu improvvisamente colpita dal rosso del grembiule e dal nero dei capelli di Nenè. Rosso e nero, nero e rosso riempiva la stanza, le faceva lacrimare gli occhi. Temette di piangere in presenza di tutti.
Ecco, finalmente il padre si voltava. Gli fece il segno liberatore.
— Vanno via?
— È tardi. Le sorelle aspettano! — mormorò don Tano sbirciando inquieto la figlia.
Non li trattennero.
L'aria fredda, sferzandole il viso, fermò le lacrime di Caterina che camminò macchinalmente, con le ginocchia tremanti. Padre e figlia non si dissero niente. Don Tano sentiva che non doveva dire niente. A casa Caterina si irritò perché zia Fifì le faceva qualche domanda.
Si chiuse in camera: si svestì in fretta come se temesse di non fare a tempo; si cacciò nel lettino freddo con un lungo brivido e restando immobile, col viso sul guanciale, pianse sconsolatamente.
Rosso e nero, nero e rosso, il riso di Nenè, che sapeva vivere, le stava dinanzi, al buio, a traverso le palpebre chiuse.
Zia Vanna, in cucina, domandava al fratello:
— Ma com'è andata? Lui com'è?
— Lui è simpatico. È andata bene, fino a un certo punto. Poi si è messo a parlare con Nenè. Caterina gli dev'essere piaciuta. Parlava con Nenè per darsi un contegno. Lei stava zitta zitta... Credo che si sia ingelosita un poco. Ma vedremo domani. Io direi...
— Io direi — interruppe sgarbatamente zia Fifì, — che se non si combina niente la conduciamo in campagna. Ha i nervi scossi! Un lutto dopo l'altro... Non era scelto bene il momento... E poi la cosa è stata preparata male. Come se l'avessimo mandata alla fiera... Dicevo bene io! Me la volete fare ammattire?
Ma l'indomani mattina, non parlarono più di campagna. Caterina si levò serena, tranquilla; mesta sì, come sempre (come era di natura); un po' pallida, sì (ma era tanto gracile!).
Zia Fifì cominciò, incoraggiata:
— Papà ha detto che quel professore...
— Senti, zia — fece Caterina calma calma, — il favore più grande che potete farmi è di non parlarmene più. Non mi piace.
— Oh! Perché? Papà...
— È brutto... Ha certe orecchie, poi... — aggiunse, tanto per giustificarsi. — Io non ho il coraggio di dirlo alla signora Teta. Parla tu per me. Dille quello che vuoi.
La signora Teta, per l'impazienza, capitò all'improvviso, più presto del solito:
— E Caterina?
— È in camera. Ora verrà.
— Ieri sera è andata maluccio. Ma forse...
Zia Vanna, impreparata arrossì. Zia Fifì. spiegò timidamente:
— Non le è piaciuto.
— Non le è piaciuto?
— No... È brutto... Ha delle grandi orecchie...
— Rifiuta un partito come quello perché ha le orecchie grandi? È puerile! Invece di afferrare la fortuna!...
Si guardò intorno, indignata, stizzita, e dopo un minuto si congedò.
Diradò le sue visite, e col tempo, a poco a poco, non si fece più vedere, avendo perduto la stima in una ragazza che bada alle orecchie del fidanzato...
Andate a fare del bene a certa gente!
Caterina tornò al suo telaio; incominciò a ricamare, un po' svogliatamente, il quadro da offrire al ritratto grande di Marietta.
Non si meravigliò quando le dissero che Nenè si era fidanzata col professore Pavonetti. Non si lamentò che le sue giornate fossero tornate come prima; e trovò naturale che anche la signora Teta avesse finito coll'annoiarsi di lei.
Siccome era passato un anno di lutto, e le serate d'autunno erano belle, per contentare zia Fifì cominciò a uscire col padre, dopo cena. Andavano verso il Sinobbio, giusto per prendere una boccata d'aria.
Accanto al padre, che taceva spingendo i sassolini col bastone, Caterina camminava nello stradale solitario, senza annoiarsi troppo e senza godere, seguendo i pacati pensieri, rimpiangendo un suo dolce sogno morto come la mamma, morto come Marietta, mentre il tempo scorre, e la gente che sa vivere si affretta e non si guarda indietro

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Fonte: Maria Messina - Ragazze siciliane

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Vivere senza leggere è pericoloso, ci si deve accontentare della vita, e questo comporta notevoli rischi.
(Michel Houellebecq)
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