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Racconti siciliani : Maria Messina - La veste caffè  Empty Racconti siciliani : Maria Messina - La veste caffè

Sab 3 Feb 2024 - 18:39
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La veste caffè


Marina, che aveva portato la calza, al solito, cominciò subito a lavorare. Come al solito domandò svolgendo il soffice gomitolo:
— Hanno scritto?
— No, figlia mia — rispose donna Giuseppa. — Ferdinando non si fa vivo neppure lui.
— Forse abbiamo poca pazienza. Non potevamo ricever lettere oggi stesso.
— Non so più che pensare. Suo zio, che l'ha accompagnato e doveva essere il suo angelo custode, non lo vede da una settimana. Non lo vogliono e non ce lo vogliono dare.
— Non volerlo, poi...
— Saperlo in un ospedale, senza esser malato, è una cosa che mi angoscia... Lui è tanto impressionabile!
— Ma se fanno così con tutti...
— Non è vero, Marinuzza mia. Fatta la «visita» li vestono subito...
Marina guardò perplessa la madre del suo fidanzato, non sapendo più che dire.
Il silenzio, seguito alla partenza di Eliodoro, era pauroso come tutte le cose che non sappiamo spiegare. Lo zio Massimo telegrafava ogni giorno frasi rotte e oscure: «Non ho veduto mio nipote», oppure: «Sempre in osservazione», oppure: «Probabilmente vedrò Eliodoro oggi».
Ora aspettavano un telegramma di don Ferdinando che si era deciso a partire all'improvviso, per amore del suo unico figlio, abbandonando i molti affari che lo tenevano inchiodato in paese.
— Sai che mi dice la testa, Marinuzza?... che dev'essere malato.
— Non lo dica. Non può essere.
Tacquero. Eliodoro, bello come un San Giorgio, non poteva esser malato.
— È lo stesso paio di ieri, questo?
— No. È un altro. Vede? il colore è un altro.
Tornavano a parlare delle calze che Marina doveva mandare a un Comitato, per i soldati, parlavano dell'inverno che pareva non dovesse finire mai, di certe vicine di donna Giuseppa, evitando di nominare l'assente. Parlavano per distrarsi; ma il suono delle loro voci era malinconioso come la grigia luce invernale che rischiarava la stanza troppo grande.
Sul tardi, mentre la nutrice, venuta per riaccompagnar Marina, aspettava nella saletta, giunse il quotidiano telegramma.
— Questo è di Ferdinando — mormorò donna Giuseppa. Lo lacerò per aprirlo, lo lesse con ansia, lo rilesse tra sé e sé lentamente: poi lo passò a Marina.
Tornavano. Eliodoro stava bene. Niente altro.
Marina guardò la madre del suo fidanzato e la gioia, più che lo stupore, illuminò i giovani occhi neri. Lo stupore, senza gioia, le rispose negli occhi stanchi di donna Giuseppa. Tacquero. Una specie di superstizione chiuse le labbra della madre. Il timore di essere mal compresa fece tacere la fidanzata.
— Mi benedica, donna Giuseppa, — disse Marina avvolgendosi con grazia ancora infantile nel morbido scialle nero.
— Santa, figlia mia. Ti ringrazio di esser venuta ogni giorno.
— Ho fatto il mio dovere. Ora che la tranquillità è tornata, scomparisco — esclamò la giovinetta sorridendo.
— La tranquillità è tornata, figlia mia... — ripeté donna Giuseppa.
La notte fu lunga e senza riposo per la madre. Pensava: la camera dev'essere preparata domani, di prima mattina. Gli farò il brodo col riso. Farò anche le frittelle col miele, che gli piacciono. Bisogna fargli festa. Non è mai uscito di casa, neppure per un giorno. Il Signore ha voluto che mi lasciasse per un'occasione come questa, e sia fatta la volontà del Signore.
Doveva essere rimasto scosso, dopo tanti giorni passati in un ospedale. Un ragazzo così impressionabile! Ma come poteva tornare se stava bene? Il telegramma era poco chiaro.
— Signore, vi ringrazio ché voi rendete l'uccelletto al suo nido. Io non mi lagno. Io sono contenta. Posso esser dispiaciuta del ritorno di mio figlio? — mormorava donna Giuseppa nel silenzio della notte, facendosi la croce per scacciare la superstizione che la riassaliva. — Io sono contenta, sono contenta — ripeteva. — In nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo...
Marina pensava, acchiocciolata nel caldo lettino, mentre il sonno cominciava a farle abbassare le lunghe ciglia di seta: — Andrò con la mamma, domenica. Ora che c'è lui non posso presentarmi sola. Gli racconterò tante cose. Novità non ne sono successe. Niente. Solo i tormenti del mio cuore hanno colmato questi brutti giorni.
Ma c'era una cosa che Eliodoro non sapeva. Il voto. Il voto fatto per Mariuccia che la notte di San Martino stava per restare soffocata dal crup. Si trattava di una veste color caffè e bisognava farla proprio col laccio bianco alla vita, a foggia di tonaca. Il voto è così. A Eliodoro non poteva piacere. Aveva gusti fini, Eliodoro.
— Ma che importa? Una veste si consuma subito, amor mio. È avvenuto un miracolo così grande!
Ma forse si sarebbe persuaso. Non sempre era testardo. Con una bella risata avrebbe detto: — Vestiti come vuoi, ma non ti far vedere da me...
Che denti mostrava, Eliodoro, se rideva! Denti bianchi, abbaglianti. Pareva di sentirsi l'anima piena di luce, quando lui rideva! Egli era suo. Non voleva bene che a lei, in tutto il mondo.
— Domani torna, torna. E io lo rivedrò domenica... — ripeté a fior di labbra. Tornava per sempre. Il miracolo era avvenuto. Questo era il vero miracolo. Per questo aveva fatto il suo voto, Marina. Nessuno lo sapeva. Anche la madre credeva che lei avesse pregato per Mariuccia. E lei aveva pregato per lui, per lui solo... perché tornasse. Non aveva osato dire la verità, neppure al confessore. Vi son parole che bruciano a dirle, speranze oscure ma potenti che bisogna chiudere in fondo all'anima.
Ma può essere fatto, un voto, con la menzogna?
Spalancava gli occhi nei buio. Perché no? Essa non mentiva nelle sue orazioni...
Si fece la croce. E pensando a Eliodoro, al corredo cucito, alle amiche che la invidiavano, Marina si addormentò piano piano, sorridendo nel sonno.
Donna Giuseppa si levò che il cielo era nero come la pece, e nel vicolo durava la luce rossastra del lampione ancora acceso. Svegliò la serva giovane e cominciò a preparare il ritorno del figlio. A giorno fatto la casa era ancora in movimento. Allorché tutto fu pronto, donna Giuseppa mise la veste di lana a fasce, come quando aspettava forestieri, e sedette davanti la vetrata del terrazzo per sentire subito. La notte senza sonno le aveva segnato due borse sotto gli occhi. Aspettava intrecciando le dita nella lunga frangia dello scialletto di seta. La paura che le riempiva l'anima diventava sempre più pungente.
Ecco finalmente che ode una carrozza nel vicolo, e il rumore del portone spalancato in fretta dal vecchio servo.
Donna Giuseppa uscì sul pianerottolo, con le braccia tese. Eccolo finalmente!
Il figlio saliva le scale, con fatica, ed era pallido. Abbracciò la madre senza parlare ed entrò senza parlare. Smorì improvvisamente la festosa accoglienza di donna Giuseppa che guardò il marito e il fratello.
— È stato malato? Perché è pallido? Perché è abbattuto?
Don Massimo si mise un dito sulla bocca dirigendosi nel suo appartamentino.
Donna Giuseppa tacque, aspettando di nuovo. Eliodoro sedette presso il fuoco e cominciò a sbraciarlo adagio adagio, senza guardar nessuno. Pareva che le sue labbra scolorite non sapessero più sorridere.
— Ecco — spiegò don Ferdinando, schiarendosi la voce con un colpetto di tosse, — bisogna dire che... tutto sommato... è andata bene!
— Bisogna dire che c'è poco da lagnarsi — riprese dopo un momento di esitazione, guardando la moglie. — Hanno dichiarato che ha il cuore malato. Proprio lui, poi...
— Se non si tratta che di questo!... — fece donna Giuseppa. E si alzò con la scusa di dare una capatina in cucina. Le gambe le pesavano come se fossero diventate di piombo.
— Certo, certo... — esclamò don Ferdinando un po' incoraggiato dalla tranquilla risposta della moglie e dal silenzio di Eliodoro. — Tu devi stare di buon animo. Il tuo dovere l'hai fatto. Ti sei presentato. Bisogna dire che la colpa non è tua...
Si interruppe, perché il figlio lo fissava con espressione di rimprovero e di fastidio.
— Taci, almeno — pregò Eliodoro. — Da ventiquattr'ore mi ripeti sempre le stesse cose. Io te l'ho detto. Io volevo andare. Mi sentivo forte, e pensavo delle cose che mi allargavano il cuore come tante giornate di sole.
— Poesie, figlio mio — esclamò don Ferdinando. — Il tuo dovere l'hai fatto e basta. C'è della gente... sicuro, perché no... — aggiunse con un visibile sforzo — della gente che ti chiamerà fortunato...
— Taci. Tu non puoi capirmi. È inutile. Dovresti avere diciannove anni e pensare le cose che pensavo io prima. Non mi hanno voluto. Non mi hanno detto neppure: «torna fra tre mesi, fra sei mesi». Neppure questo.
Avrebbe voluto aggiungere: — Tu non mi puoi capire. Tu vedi la cosa da una parte sola. Io no. So la verità, ora. E questa giovinezza, questa salute, che tu mi nomini ogni momento, mi pesano, ora, mi sono odiose come le dorature d'un gioiello falso. Ora so perché lo zio Graziano morì a ventidue anni, perché la zia Barbara morì mentre le appuntavano il velo da sposa.
— Taci. Te ne prego — ripeté.
Don Ferdinando parve rimpicciolirsi tutto.
— Perdonami, te ne prego. Se ti rispondo ti faccio male. Non è colpa mia... Sono cattivo. Sono esasperato.
Il desinare fu breve e triste. Non la festa avrebbe dovuto accogliere quel ritorno, ma il silenzio e la quiete: il vigile silenzio che si fa intorno a uno che soffre. Ma la madre non poteva fare a meno di opprimere il figlio con premure minute, incessanti.
— Vuoi il caffè! Vuoi i giornali? Ora non ci devi pensare più a quel che ti hanno detto. Sei un fiore, figlio mio. Guardati nello specchio e ridi di tutte queste malinconie. Ora sei a casa tua, come un reuccio nel suo regno...
Nel pomeriggio cominciò una sfilata di visite. Vicine curiose, parenti, che venivano per Eliodoro, pronti a rallegrarsi o a condolersi, secondo il caso. Ma Eliodoro si chiuse nella propria camera; vi rimase rifugiato sino a notte. La solitudine gli dava una specie di ristoro.
I libri in ordine; i pennelli a posto; la coperta di seta sul lettino, quella che la mamma adoperava una volta all'anno per Pasqua: le tende inamidate di fresco: tutto era stato aggiustato nella camera con amorosa meticolosità. Guardò un vivace acquerello che aveva lasciato incompiuto, partendo. Le tinte gli parvero scialbe, il disegno fiacco, impreciso. Si stupì che potesse essergli piaciuto. Osservò con disprezzo i quadretti di cui aveva riempito le pareti. Lavori che gli avevano dato gioia, che gli avevano fatto credere d'essere un artista.
No, no... Anche questa è una cosa falsa — pensò con amarezza.
Ebbe la sensazione di aver vissuto lunghi anni. I morti giovani della sua casa lo chiamavano nel loro cupo mondo senza fine, i morti giovani dai pallidi volti, dai grandi occhi velati di nostalgia.
Era partito felice. Una gioiosa fanfara pareva lo avesse accompagnato nel viaggio. La vista di luoghi nuovi, di nuovi paesaggi, tutto era stato una festa per i suoi occhi desiosi di bellezza. La visita medica non lo aveva preoccupato mai. Con una specie di orgoglio aveva mostrato all'esame il suo corpo biondo e perfetto. Pareva dire:
— Eccomi, son pronto anch'io, come gli altri.
Come gli altri, come tutti i giovani, che si slanciavano innanzi, rischiarati da una rossa ardente luce di gloria, senza contare le lacrime delle donne amate.
E poi?
L'entusiasmo svanì a poco a poco in una sala d'infermeria.
Era stato una povera cosa senza anima sotto il freddo acuto sguardo dei dottori. Per essi egli non era che un «individuo inabile»: non altro. Nel luogo estraneo aveva udito intera la verità, pronunciata con le frasi più nette e più precise. Un nemico era dentro di sé, in agguato, e lui non lo aveva mai temuto. Aveva un cuore malato che una emozione troppo forte poteva far cessare di battere, che una fatica, una marcia potevano spezzare. Era, il suo corpo grande e forte, come un balocco solido animato da un congegno troppo fragile.
Ma egli sperava. E si offrì come volontario, dal suo letto di osservazione. Non lo vollero. La macchina era guasta, irrimediabilmente guasta.
E allora le cose ebbero ai suoi occhi un colore nuovo. I bei disegni dell'avvenire e i sogni d'arte, l'amore che gli sorrideva con la fresca bocca di Marina, tutto si sbiadì come se la morte gli si fosse messa allato, con le ali chiuse.
Tese l'orecchio. C'era ancora gente, di sotto. Udiva un brusìo confuso. Che mai poteva dire di nuovo, di interessante, la gente? Udiva anche ridere.
Sì, pensò, tutto è come prima. Solo io sono mutato.
Si distese sul divano e cominciò a leggere uno dei libri che aveva acquistato di nascosto allo zio.
«Paragrafo V. Della trasmissione delle imperfezioni cardiache».
Lesse poco. Conosceva quasi a memoria ogni parola di quelle pagine che sapevano l'interminabile viaggio del suo ritorno.
Chiuse il libro. Chiuse anche gli occhi. Rivide il padre, piegato umiliato dinanzi a lui, come un colpevole. Mormorò: — Perché? perché?...
Poi rivide anche Marina... E pensò agli «altri», ai non ancora nati, che dovevano tenere desto dopo di lui il vecchio male di famiglia...
Allora si nascose la faccia sul cuscino e pianse come un fanciullo ingiustamente battuto.
La madre attendeva alle solite faccende. Il padre restava lunghe ore nel suo tepido studio di notaio. Non vista, la madre piangeva. Di nascosto, il padre leggeva i giornali assaporando con una specie di amarezza gli articoli più belli. Ma in presenza del figlio i due vecchi evitavano di parlar di soldati, di chiamate, di riforme; oppure coglievano timidamente qualche occasione per dire cose che non pensavano, per ostentare un grossolano egoismo che non avevano. Senza dirselo, s'erano messi d'accordo; bisognava mentire, mostrarsi tranquilli, parere contenti...
Allora Eliodoro guardava con doloroso stupore i suoi cari vecchi che gli avevano insegnato ad amar fortemente la Patria, da bambino: la Patria – creatura alata e senza volto, che ha soltanto un nome, come l'Ideale, come la Giovinezza, e fa parte di noi, della nostra razza, dell'aria che ci nutrica. Avevano dunque mentito, allor che non li minacciava alcun pericolo? Il mondo era dunque senza luce e senza bellezza? e anche la fervida idealità dei suoi vecchi non era stata che una gonfia posticcia espressione?
— Riformato?
— Proprio tu!
— Con queste spalle?
— Invece di farti alpino!
Gli stessi commenti, le stesse esclamazioni, lo salutavano con ironica festosità al Circolo, al caffè, dovunque.
Lasciata a mezzo una partita al biliardo andò a rifugiarsi in un viale del Parchetto. Per non essere salutato da certi conoscenti che vide seduti su una panchina, entrò nel chioschetto di ellera. Era già stanco, senza aver molto camminato, e però si lasciò andare sul sedile. Forse l'aveva fiaccato lo scirocco. L'aria era grave, il cielo basso che pareva si potesse toccar con le mani. Un gallo gettava lontano il suo grido rauco e stridulo. Giungevano fino a lui, nella quiete profonda del viale, le voci di coloro che discorrevano, seduti sulla panchina, e se ne dolse. Non c'era cosa più buona della solitudine e del silenzio.
Udì ripetere il suo nome, e ascoltò senza volerlo.
— Ha pagato bene il notaio. Altrimenti era impossibile...
— Credete?...
— Senza dubbio. Vi pare che il figlio del notaio sia giovanotto da far passeggiare per le strade? È ricco, è fidanzato, ha un bell'avvenire e lo risparmiano. Ecco tutto.
— E poi hanno il coraggio di mettere la bandiera alla finestra...
Eliodoro scattò in piedi. Ma ricadde a sedere pesantemente. Perché giustificarsi? E come? Come far credere alla gente: Io volevo andare ma non mi hanno voluto?
Tornò a casa, attraversando le vie più deserte. Richiudendo l'uscio sentì la fresca risata di Marina e trasalì, come quando ci siamo rassegnati a una dura rinunzia e una voce avverte: — È l'ora.
Posò lentamente il bastone, il cappello, indugiando nell'anticamera. Guardava la soglia, e gli pareva che un ostacolo insormontabile lo separasse dalla sala, dove Marina lo aspettava.
Oh! esser libero! Non essere amato e non amare! Rifarsi una vita nuova, senza rimpianti e senza speranze, potersi dire: — Ho finito e non mi aspetto più nulla...
Con sgomento sentì che desiderava la morte.
Desiderare la morte per volere amare troppo la vita?
Sì, la vita è lotta, fede, amore. Come rinunziare a queste cose senza rinunziare alla vita?
Nel canto della finestra la giovanetta chiacchierava col suo fidanzato. Quante cose aveva da dirgli!
E il piacere e il dolore passarono nell'anima di Eliodoro, a chiaro e scuro, come chi ha la febbre ed è ristorato da attimi deliziosi di lucidità.
— Eliodoro, tu sembri malato senza esser malato...
— Eliodoro, ti ho portato le prime violette del mio giardino...
— Eliodoro, ho già ordinato alla sarta la veste di voto.
— Quale voto, Marina?
— Per Mariuccia. Una tonaca col cordone... Perché mi guardi così? È brutta, lo so. Ma è un voto. Proprio non vuoi?
Gli occhi di Eliodoro fissavano Marina.
— Tu mentisci — dicevano quegli occhi disperatamente. — Tu hai fatto il tuo voto per farmi tornare. Anche tu... anche tu...
Anche Marina, come il padre, come la madre, come gli estranei, era convinta che lui fosse un privilegiato della sorte. Vedeva la sua fidanzata con la tonaca di voto, e riudiva le ironiche esclamazioni degli amici del Circolo.
— No — implorò. — Non portarlo il tuo voto, Marina. È una cosa orribile.
Marina arrossì. Forse egli aveva capito. Volle spiegarsi. Ma non osò. Temette di non saper mentire.
Eliodoro aspettava. Aspettava che Marina, almeno Marina, gli dicesse una parola giusta. Oh! se lei avesse detto: — La sorte è stata cattiva con te...
Aspettò trepidante la parola giusta che gli avrebbe dato l'amaro conforto di cui era assetato. Ma la fidanzata tacque. Poi osservò:
Aspettò trepidante la parola giusta che gli avrebbe dato l'amaro conforto di cui era assetato. Ma la fidanzata tacque. Poi osservò:
— Le prime violette odorano di più.
Eliodoro lasciò la finestra. Accese una sigaretta col fuoco della pipa di don Ferdinando. Esclamò:
— Io ora sono un imboscato... Me lo dicono.
— E voi lasciateli dire — fece la madre di Marina placidamente. Don Ferdinando corrugò la fronte.
Eliodoro guardò a lungo fuori. Un albero si disegnava nitidamente, coi suoi rami spogli, sul cielo basso e grigio. Poi si allontanò, senza voltarsi.
Allora Marina sedette presso la madre.
— Che ha? — domandò donna Giuseppa.
— Non vuole che mi faccia la veste di voto. Ma io l'ho promessa solennemente. Per Mariuccia...
— Hai fatto male a parlargliene oggi stesso — fece la madre. — Può credere che...
— Oh! questo no... — esclamò Marina con la voce piena di lacrime.
Ci fu un gran silenzio. C'era qualche cosa nell'aria che serrava la gola.
— Bisogna dire che l'inverno è brutto — ripeté don Ferdinando picchiando dolcemente sul bocciolo della pipa. — Vuol piovere.
Ma nessuno gli rispose. Mentre tutti tacevano, inquieti, si udì lo schianto cupo d'un'arma, nella stanza di sopra. Tutti, balzando in piedi, guardaron Marina che non osava muoversi.
— Signore! Signore! — gemeva forte con la faccia tra le mani. — Il mio voto...

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Fonte: Maria Messina - Ragazze siciliane

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Vivere senza leggere è pericoloso, ci si deve accontentare della vita, e questo comporta notevoli rischi.
(Michel Houellebecq)
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